giovedì 9 giugno 2022

Benvenuta, la chiocciola gigante

“Ogni essere umano è unico: rispettarne la diversità equivale a difendere la propria e l'altrui libertà.” Emanuela Breda


" E' facile accettare e amare qualcuno uguale a noi. Ma quando è diverso? Considerare il dubbio può essere già un'apertura alla tolleranza."

BUONA LETTURA

Esisteva molto tempo fa, in un paesello… una chiocciola gigante dal guscio robusto come quello della tartaruga, malandata, vecchia e sola.

I suoi simili e spesso anche gli umani, la prendevano in giro per la sua mole fuori dal normale e non mancavano di farle scherzi, a volte anche pesanti, e di beffeggiarla con nomi offensivi.

Così umiliata e depressa, un giorno, dopo aver sopportato angherie di ogni genere, riuscì a trovare il coraggio di abbandonare quel luogo inospitale. Non sapeva dove l’avrebbe portata il viaggio, ma l’importante era andarsene.

La giornata primaverile luminosa e calda, di quelle che fanno presagire l’arrivo imminente dell’estate, non era proprio l’ideale per lei, ma la decisione era stata presa e non voleva più rimandare.

In cerca di un po’ d’ombra e di umidità, prese il sentiero alberato che costeggiava dei campi di colza. La distesa gialla baciata dai raggi solari, che si stendeva per chilometri, ondeggiava davanti ai suoi occhi. Ne fu piacevolmente impressionata e si soffermò estasiata ad ammirare lo splendido spettacolo.

L’ora prossima al tramonto conciliava il tutto, sentì che l’avvicinava alla grandezza insuperabile della natura, e fu orgogliosa di farne parte. Una piccola cosa in mezzo a quel paradiso, ma era pur qualcosa, a modo suo anche lei contribuiva all'armonia del tutto.  Per sua fortuna non c’erano umani in giro, ma una vocina le suggeriva comunque di avanzare e con fare circospetto riprese il cammino, anche se, così facendo, doveva strascicare maggiormente la sua camminata.

Non conosceva ciò che avrebbe potuto incontrare e si portò lungo il ciglio del viottolo vicino a dei grossi cespugli, e a un piccolo canale usato per irrigare i campi, in modo da stare al fresco e di mimetizzarsi con il fogliame qualora avesse fiutato un pericolo.

Diffidava di chiunque: animali o uomini che fossero, le esperienze negative, avute in precedenza, le dicevano di evitarli, perché da loro potevano arrivare solo guai.

Ricordava ancora con ansia la volta in cui un bambino l’aveva presa a bastonate e ne era uscita incolume grazie al suo robusto guscio e all’intervento di una donna che aveva richiamato il bimbo. 

Non poteva certo negare di non aver avuto paura, in quella situazione, alla mercé del discoletto, senza mezzi con cui difendersi e per giunta incapace di potergli sfuggire velocemente. Purtroppo era consapevole dei suoi limiti e vi poneva rimedio cercando di essere molto accorta e prudente.

Un’altra volta, invece, era stata colta alla sprovvista da un rapace, su uno spazio esterno, vicino a una cascina. Anche allora ne era uscita senza un graffio, ma solo grazie al fatto che l'uccello era stato distratto da una preda più vicina: un rettile che strisciava tra l'erba. 

Ciò però non le aveva evitato di assistere con terrore alla caccia, bloccata dallo spavento, e di vedere Il rapace avventarsi rapido sopra la preda, afferrarla con gli artigli e portarsela via. Pochi secondi, ma un'eternità per lei che s'era immaginata già sotto quegli artigli, ormai spacciata.

Un brivido l'aveva attraversata tutta, e dall'emozione aveva rilasciato sul terreno una lunga scia di bava argentea iridescente. Il rapace per sua fortuna non era tornato indietro e ciò le aveva permesso di portarsi vicino a un cespuglio e di nascondersi.

Memore di queste esperienze stava attenta a tutto quello che si muoveva attorno a lei, anche il vento che agitava le foglie poteva essere un potenziale pericolo e metterle ansia.

***

Striscia, striscia, passarono i giorni, i mesi. Nessun luogo le trasmetteva sicurezza, e così andava avanti, giorno dopo giorno un po’ più avanti. Il corpo, però, produceva sempre meno bava e a ogni movimento le ricordava i suoi limiti. Presto avrebbe dovuto fermarsi, stava consumando troppe energie.

Un pomeriggio, mentre pensava tra sé a sé a come fare per riprendersi dalla stanchezza, udì una musica allegra, forse prodotta da una fisarmonica o da un organetto.

Proveniva da una radura in mezzo a una pineta, circondata da mura in parte diroccate, presumibilmente i resti di una vecchia cascina abbandonata. Era davanti a lei, poco più avanti, alla sua destra, e il buon umore cominciò a contagiarla piacevolmente, oscurando paura e prudenza.

Qualcosa dentro di lei le diceva di andare avanti, di non avere paura e così, strisciando lentamente verso la musica per una buona ora, arrivò con fatica davanti una porticina mezza aperta, che pareva condurre verso un interno. Benché non riuscisse a vedere oltre, non si lasciò intimorire.

Aveva bisogno di riposare, di recuperare le forze, e di soffermarsi a mangiare qualcosa, magari una foglia di insalata, o dei lombrichi. Così, ormai quasi allo stremo, superò la porticina e si trovò in un largo spazio davanti a una piazzetta con una fontana centrale in ferro battuto. Pareva un paese in miniatura, era pavesato di lampioncini colorati appesi ad alberi di ciliegie selvatiche, come tanti festoni e affollato di animali che cantavano, giocavano tra loro come grandi amici.

Era entrata in un mondo fantastico e felice, mai visto prima di allora e sperò che non si ripetessero le scene che sempre accoglievano il suo passaggio.  Ma non ebbe tempo di formulare altri pensieri che, già, un grillo l'avvicinò per darle il benvenuto:

-Ciao, sono Chris, il grillo canterino, senti? - si mise a frinire e a ogni cri-cri le ali muoveva, vibrando.

La chiocciola lo guardò ammirata, e non trovò parole per commentare, non aveva mai visto qualcosa di simile.

-Ti piace, eh? - proseguì il grillo

-Aspetta, ti presento agli altri. A proposito, tu come ti chiami? -

-Non ho un nome, rispose l'altra, tutti mi chiamano la chiocciola gigante, e basta. -

-Te lo do io un nome, per noi da oggi sarai: Benvenuta - E, così dicendo, chiamò gli animali nelle vicinanze per fare le presentazioni.  Accorsero alcuni gatti bianchi tigrati neri, una volpe, due lupi, dei topi, diversi passerotti e un colibrì che l’accerchiarono festosi, accogliendola con interesse e curiosità.

***

Una grande festa in suo onore fu subito organizzata per la sera.

Le furono fatte domande sul luogo di provenienza, e anche su ciò che c'era al di là di quelle mura, perché nessuno dei presenti le aveva mai superate, non avendone avuto la necessità. In quella piccola comune si viveva senza correre alcun pericolo, nessun animale e umano mal intenzionato vi si era mai avvicinato e si respirava un’aria di leggerezza e allegria. 

Grande fermento quel giorno, in particolare: presto sarebbe stato il compleanno del gatto Fred e ognuno avrebbe dovuto dare il proprio contributo per allestire un banchetto con tanto di festa in suo onore.

In quelle occasioni si organizzavano giochi, tornei, spettacoli teatrali. Si preparavano bevande, piatti golosi con le piante che crescevano attorno e si raccoglieva l’acqua da un piccolo ruscello che scorreva a sud della radura.   Da ogni parte quindi, c'era animazione e buon umore.

Alla vista della chiocciola due topini l’avvicinarono lesti, lesti. Non avevano mai visto una chiocciola così grossa, e pensarono sarebbe stato bello giocarci insieme. Gli salirono subito in groppa e presero a rincorrersi festosi sopra il guscio.

Bastò poco per fare amicizia, e sciogliere quella scorza protettiva di diffidenza che l’aveva sempre accompagnata.   Riuscì persino a parlare un po' della sua vita precedente e non trascurò di elencare tutti i suoi crucci, le sue insicurezze, il suo sentirsi inutile. Ebbe modo di raccontare che gli altri le dicevano sempre che era solo di impaccio così grossa e soprattutto buona a nulla perché troppo lenta. Una chiocciola inutile che non avrebbe mai concluso niente nella sua vita.

I topini cercarono di rassicurarla e di convincerla che la grandezza e la sua lentezza non costituivano un problema, ognuno doveva accettarsi per come era, e non erano certo gli altri a decidere come dovesse essere.

-Tu sei unica, cara Benvenuta, nessuno è uguale a te e quindi sei speciale. – E proseguirono, dicendo: Vedi, sono “gli altri”, quelli che ti hanno presa in giro, ad avere il problema, perché non tollerano, e rispettano la diversità. Non sanno cogliere la bellezza che deriva dall’imparare a guardare il mondo con occhi nuovi. -

            Poi si misero a confabulare tra di loro e mentre la chiocciola ripensava alle loro parole, i due topini si accordarono sul dar farsi. Benvenuta aveva bisogno di lasciarsi alle spalle le brutte esperienze, doveva dimenticare e ci avrebbero pensato loro usando un po’ di fantasia. Solo così sarebbe tornata serena. E poi erano ansiosi di dimostrarle la loro simpatia. Allegri, vivaci e un po' sbruffoni, di fantasia loro ne avevano da vendere.

Ci pensarono un po' su, ma non ci volle molto perché se ne uscissero con un'idea, a loro dire, geniale.

- Attacchiamo una slitta davanti al tuo guscio, le dissero, in giro di legna ne troviamo. Quattro assi incastrate tra loro e il gioco è fatto. Dopodiché ci saliamo sopra e ti trainiamo. -

- Vedrai ci divertiremo un mondo. –

-E poi potrai aiutarci a pulire un po’ attorno, qua ce n’è sempre bisogno e ci sarà anche da eliminare le foglie che cadranno dagli alberi in autunno. Vedrai, non ti annoierai. -

La chiocciola solleticata dalle novità, ne fu entusiasta, trovò l’idea del carretto geniale. Sarebbe stato davvero un bel modo per divertirsi e divertire gli altri e soprattutto ora poteva essere utile a qualcuno.

Finalmente aveva trovato un luogo dove sarebbe stata rispettata e apprezzata per quello che era. Capì che non c’era niente di male ad essere diversa.

            In fin dei conti un po’ tutti, a modo loro, erano diversi.

Stefania Pellegrini ©

Anno 2020 - DIRITTI RISERVATI

 

lunedì 23 maggio 2022

Una questione di scelte - racconto

 


Buona lettura e buon ascolto.


Quando ti accadono certi fatti, come è successo a me con le visioni degli ultimi tempi, credo sia naturale cominciare a dubitare della persona equilibrata, che credi di essere, e ogni certezza nella tua testa vada a farsi fottere. Sfido chiunque a controllare lo stato di agitazione a cui si va incontro: con ogni cellula del corpo in fibrillazione… pensieri, emozioni, che fan girare la testa… e vorresti fermare quella giostra in movimento che gira – gira senza tregua.  

Quando poi, tutto è passato, provi a non pensarci. Cerchi di dedicarti ad altro, a una qualsiasi cosa che possa scacciare lo stato confusionale creatosi nella mente.

Provi – riprovi, ma il fatto ormai è lì, e pure il tarlo che si è insinuato nella mente.

Ieri è accaduto mentre sto uscendo di casa per andare all’Università, il mercoledì ho lezione di anatomia.

Mi vedo ferma su un marciapiede davanti a una strada e un negozio senza insegna. I capelli corti, sono lunghi fino alle spalle, e indosso un impermeabile con cintura in vita. Sono certa di essere ben sveglia eppure non sto vivendo il momento. Lo sto subendo in balia di qualcosa di incontrollabile. 

L’immagine è del tutto singolare.

Non ricordo di averla mai vissuta, né riconosco il luogo, oltretutto il vedermi immobile e di schiena non mi dà alcuna certezza di essere io.

Provo, come altre volte, a scrollarmi le sensazioni di dosso e allungo il passo decisa a prendere la metro delle 8:30. L’aria fresca, quasi pungente del mattino, mi fa riacquistare un po’ di lucidità. Giunta in stazione, un odore di officina, un’aria pesante riempie la banchina, il treno sopraggiunge subito dopo. Salgo sul vagone affollato di gente in quelle prime ore del mattino, ma devo rassegnarmi a stare in piedi appoggiata a una maniglia e… mi reimmergo nei pensieri.

In facoltà, prima di entrare in aula per la lezione, faccio una sosta alla macchinetta delle bevande per prendermi un caffè. Sono da sola e sto muovendo il cucchiaino nel bicchierino di plastica, la bevanda scotta e aspetto si raffreddi quando mi raggiunge un odore di arance amare, poi un aroma dolce di tabacco e subito dopo la solita visione. In mezzo sento il suono di un clacson e la sirena di un’ambulanza. Poi i rumori si attenuano lasciando spazio a delle note musicali. Le riconosco subito, sono quelle del Notturno di Chopin. Il cuore prende a battere a mille… palpitazioni dal petto risalgono fino in gola.

Mi guardo attorno stranita, anche i suoni sono frutto della mia immaginazione? La stanzetta è silenziosa e vuota… due giovani chiacchierano allegramente in corridoio… Oddio… È tutto accaduto all’interno della mia testa.

Rovescio per terra qualche goccia di caffè. Le gambe si fanno molli e allungo una mano per cercare un sostegno. Ma cavolo, come si può vivere così?

 ***

-Si tratta di allucinazioni? Sto diventando pazza? Mi dica. -

-Lei è una ragazza carina e ha poco più di venti anni, giusto? –

     La dottoressa sembra studiarmi. Sono a disagio e ricambio lo sguardo soffermandomi sui tratti del suo volto roseo, forse cinquantenne, che non tradisce alcuna emozione.

Mi viene caldo, apro la cerniera del giubbetto di pelle e distendo le gambe accavallate.

Scorro lo sguardo nella stanza e mi aggiusto meglio in poltrona. Le mura sono bianche e c’è una grande finestra, a lato del piccolo scrittoio in legno, che dà luminosità all’ambiente. Oggetti e alcune piante verdi, due orchidee con fiori rosa, sono disposti con cura. Mi piace ciò che vedo e cerco di calmare l’agitazione che mi ha assalita entrando lì.

-Mi ha detto di aver perso suo padre circa un anno e mezzo fa. Da allora è diventata taciturna e non ha amici, né un fidanzato. Cosa può raccontarmi di lui? -

-Dottoressa, è morto d'infarto, una tragedia improvvisa a cui non ero preparata. - Deglutisco la saliva, mi accorgo di fare fatica a parlarne, ancora il ricordo mi procura la fitta di una stilettata al cuore.

-Avevamo un rapporto speciale e mi sono chiusa in casa per una settimana. Un suono, o un rumore diverso, e correvo alla porta. Ma era l’anno della maturità e, per non rischiare di perderlo, ho dovuto riprendere le lezioni.

Era mio padre a guidare tutte le mie scelte, a cominciare dalle lezioni di pianoforte. Mi piaceva molto suonarlo, sa, ma era diventato troppo impegnativo e in quarta ginnasio lui mi fa smettere. -

Mentre ricordo, rivivo quei momenti: sento la sua voce decisa, perentoria… quella dolce della mamma che cerca di dissuaderlo... le mie promesse… le mie insistenze, e un sapore amaro mi sale in bocca.

-Non l'ha più suonato, neanche a casa? Cosa provava quando lo faceva? -

-Mia madre avrebbe voluto. Lei diceva sempre che la musica è la voce con cui si può far parlare l’anima e le era dispiaciuto molto non sentire più quei suoni in casa.  Ma sa, la scuola mi impegnava parecchio e per mio padre la musica era una distrazione che non potevo permettermi. -

La dottoressa mi ascolta senza interrompermi, appare calma e mi incoraggia sorridendomi. Mi soffermo a pensare, ma le parole fuggono dalla mente prima di essere formulate come fossero migliaia di bolle di sapone. Sono confusa – frastornata - troppe emozioni e, soprattutto - troppi ricordi dolorosi.  

-Sentivo che aveva grandi aspettative, forse perché ero l’unica figlia, ma non dicevo nulla. Il classico… la laurea in medicina… Voleva mi specializzarmi in pediatria, mi pare, il perché però non l’ho mai capito.   

Sa, certi giorni, andare a lezione in facoltà mi crea una sorta di inquietudine e agitazione. Credo sia ansia, ma ancora non ho capito bene a cosa sia legata.

Qualche volta penso derivi dall’indirizzo di studi che ho scelto, ma anche fosse… non avrei il coraggio di cambiare facoltà. Poi che potrei fare?

Mio padre prendeva le decisioni, e io lasciavo fare. Fin da piccola era stato così e adesso che non c’è più sono spesso indecisa su ciò che dovrei o non dovrei fare. Forse mi piaceva anche, in fin dei conti voleva solo il mio bene.

Ho divagato, mi scusi, mi chiedeva della musica, giusto?

Ecco, avevo trovato il modo di esternare ciò che avevo dentro. Cosa esiste di più bello della musica per rompere il silenzio, per tenere lontana la solitudine e rappresentare il sentimento del movimento? Muovevo le dita, e su - giù, avanti - indietro, migliaia di scale solo per me. Un fluido in divenire mi portava in un altro tempo… un’altra dimensione.  

Come se volassi.

Altro non c'era di così trascinante. Trovavo facile lasciarmi coinvolgere da quel linguaggio e dalle emozioni che nascevano dentro e mi scaldavano il cuore. La musica rappresentava il mio salvagente, un modo per evadere, quando mi sentivo troppo sola. -

La dottoressa s’è fatta più attenta, non si trastulla più con la penna che tiene in mano e mi sento incoraggiata a proseguire.

-Era questo, dottoressa, questione di pelle… sì, perché quelle note arrivavano a sfiorarmi, accarezzarmi con dolcezza. Un languore in pancia sentivo e brividi sulla pelle.

Non so se sono riuscita a darle un'idea. -

-Certo. Mi parli ora dell’ultima visione. - La sua voce è calda, ma controllata e ciò mi rassicura. Sono giunta all’ultimo racconto, e la tensione in me s’allenta.  

-Ecco, sto rientrando a casa e sono sulla metro, seduta. Il vagone è affollato come ogni sera. Sento una voce, è di una bimba che parla con il padre. Ma non capisco cosa si dicono… poi la vista mi si offusca. Tutti i suoni… il vociare dei viaggiatori… lo sferragliare della metro sui binari… lo squillo di un cellulare, sembrano allontanarsi, fino a farsi ovattati, deboli.

Chiudo gli occhi e mi raggiunge un aroma dolciastro, leggero. L’ho già sentito…

Subito lo riconosco. È di tabacco da pipa, come quello che usava papà. In una sorta di estraniamento, come fossi entrata in un sogno, lo vedo: è in piedi davanti a un negozio di musica, dalla parte opposta della strada.

Mi sorride, e pare dirmi qualcosa.

M’incammino allora, voglio raggiungerlo. Provo ad attraversare, ma a ogni passo la strada sembra allontanarsi, sempre un po’ di più, fino a scomparire. Riprendo coscienza di me. Riapro gli occhi. Mi tocco. Le mie mani... le dita… provo ad aprirle a chiuderle… funziona. Sono viva! Il soffitto della vettura, però, ondeggia e per un po’ non riesco a realizzare dove mi trovo.

Quanto tempo è passato? Poi ricordo… Ho visto mio padre… così reale la sua alta figura, il volto sorridente… che mi metto a cercarlo con lo sguardo tra i volti che mi stanno attorno.  Ma lui mi ha lasciato di nuovo.

L’esperienza mi porta un senso di stanchezza, mi sento fiacca. Fuori dalla metropolitana, l'aria della sera di fine ottobre è fresca sul viso, recupero un po’ di energia. Tiro su la lampo e il colletto della giacca di pelle e d’improvviso sono leggera. Salgo le scale di casa a due a due, saluto con un largo sorriso la vicina ficcanaso affacciatasi sul pianerottolo, ed entro nell’appartamento.  

È allora, quando entro nella mia camera, che mi viene da pensare, di riflettere, sui miei limiti, dottoressa e capisco... Capisco che ci sono situazioni che si possono combattere e risolvere da soli e altre, invece, che necessitano di una richiesta di aiuto, altrimenti è un continuo scontrarsi con i mulini a vento. -

La dottoressa pare riflettere su quello che ho appena raccontato, e approvare la mia riflessione. La guardo con più attenzione e solo ora noto i suoi capelli corti, bianchi e ricci, i piccoli occhiali di metallo rotondi che toglie dal viso e posa sullo scrittoio, la voce misurata e bassa, rassicurante. 

-Non ha mai pensato di avere qualcosa che la tormenta, e chiede di essere portata alla luce? -

-Non so - La guardo confusa, non credo di aver capito cosa intenda.

-Vuol dire che le ripetute visioni sono per ricordarmi di pensare a mio padre? Ma non ce n’è bisogno, a lui penso ogni giorno. Ricordo spesso episodi piacevoli vissuti con lui, e provo a ritrovare parte dello stato di benessere e di gioia di bimba… mi vedo nel parco sul seggiolino della sua bicicletta, sulla neve con lo slittino… in salotto seduti sul divano a conversare.  

Però devo ammettere… non sono più in grado di gestire le mie emozioni. Le tengo chiuse dentro quasi a proteggerle. Fa troppo male, mi creda, affrontare il dolore e mi impongo di ignorarlo, sperando se ne vada da solo. -

 -Cara ragazza, ha mai provato a fare qualcosa che le dia piacere? Al di là di quello che direbbe suo padre? Mi dia retta, torni ad ascoltarsi, così come faceva quando suonava, e dia vita ai suoi desideri.-

    Ascoltarmi… non lo faccio da così tanto tempo, forse non l’ho mai fatto veramente. Da che parte comincio? 

***

    Esco dallo studio, ormai è sceso il buio, ma non ho voglia di rientrare a casa. Devo prendere tempo, riflettere, e fare chiarezza nella confusione che ho in testa.

Prendo a camminare lungo i portici delle strade del centro, soffermandomi davanti a qualche vetrina, la gente mi passa accanto, qualcuno mi urta. Sembra che tutti abbiano fretta di tornare a casa.  L’aria è piacevole, e mi scopro improvvisamente attratta da ciò che mi circonda.

Un paio di scarpe colpiscono la mia immaginazione: sono in vernice nera, di linea semplice, mi piacciono, ma hanno i tacchi a spillo. Guardo ciò che indosso abitualmente: gli stivaletti alla caviglia, bassi, la dolcevita di lana gialla, i jeans in stretch neri, e penso che forse non sarebbe male se mi fermassi a comprare qualcosa di diverso. Magari un abito a tubino in maglia, come quello che ho appena visto nel negozio a fianco e magari un profumo e un fondo tinta. 

-Con il colore dei suoi occhi, a pagliuzze verdi e marrone, il verde salvia andrà benissimo. - Mi dice, sorridendo, la commessa della profumeria, quando le chiedo un consiglio. Non ho mai usato l’ombretto, ma vada anche per quello.

 La dottoressa mi ha rassicurato, e mi sento in vena di fare pazzie. -Forse ci vorrà ancora qualche incontro perché le visioni scompaiono del tutto, ma come sono arrivate se ne andranno. -

-Dare tempo al tempo – così mi ha suggerito e io non ho fretta. 

A casa, mia madre non c’è, l’appartamento è avvolto nel silenzio. Meglio, ho ancora bisogno di metabolizzare la folla di pensieri che mi  passa per la testa.

Il pianoforte, il mio fedele amico è ancora lì. Stranamente questa sera pare guardarmi, invitarmi. Mi soffermo a osservarlo e sento una languida nostalgia salirmi in petto. - Mi sei mancato tanto, gli dico, sfiorandolo con una mano. -

Porto gli acquisti in camera da letto e torno rapida in salotto. Quando mia madre rincasa, sto suonando le prime note del Notturno di Chopin. Non mi accorgo della sua presenza alle spalle, così dolcemente coinvolta e persa nel suono di quelle note.

     Dopo le prime incertezze, le mie dita riacquistano la naturalezza e la scioltezza di una volta. Le sento, le vedo muoversi: su – giù, avanti – indietro… leggere sui tasti neri, bianchi… cavalcano una melodia che mi trascina lontano. Che bella sensazione! Tutto attorno a me scompare, s’annulla in quel suono che muove tra le righe dello spartito. Il tempo si allenta come una trama che perda consistenza. Entro in un sogno fatto d’armonia e di piacere. Incontro pure mio padre che pare incoraggiarmi, come quando bambina muovevo i primi passi. Non sono più io che suono, qualcun altro mi guida all’abbandono, a un trasporto ristoratore. La contrattura alle spalle, di poco prima, scompare, tutto il corpo si lascia andare, e pare non avere più peso. I pensieri s’arrestano.

È la musica a parlare per me, a esprimere ciò che non sarei mai capace di fare con le parole.

Ed eccola la poesia, materializzarsi, concretizzarsi in qualcosa di assoluto. Cosa può esserci di più affascinante e liberatorio di questa poesia dell’anima?

Stefania Pellegrini

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