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venerdì 5 giugno 2020

Il gelso e la sua leggenda


L'estate sta arrivando a grandi passi, quest'anno poi, prima degli altri. E' arrivata così senza fare rumore, e ci sta portando la voglia di evadere dalla quotidianità, di assaporare il tepore che ci circonda, constatandone il suo potere sulla natura, i mutamenti che avvengono intorno a noi e, anche in noi.



foto di Rebekka D - Pixabay


Riscopriamo i suoni che ci circondano, come quello immancabile dei grilli,  i colori e i profumi dei fiori, il gusto dolce dei frutti che in questa stagione abbondano in forme e varietà.

Il gelso per esempio, chi non ha avuto modo di conoscere questa pianta dai frutti dolcissimi?

Dal nome:“Morus alba.L. il gelso appartiene alla famiglia delle Moracee e la caratteristica di questa pianta è un lattice che viene secreto come difesa a ferite o lesioni per evitare la penetrazione di parassiti nel loro organismo.
E' una pianta arborea dotata di notevole rusticità, che ben si adatta a condizioni di terreni assai varie; proviene dall’Asia ed è presente in Italia da secoli, dove si è diffuso in passato per l’impiego tradizionale delle sue foglie come alimento del baco da seta.
I suoi frutti sono ricchi anche di ferro, vitamina C e vitamina A. Per questo si tratta di un rimedio naturale utile anche a contrastare l’anemia e le sindromi da raffreddamento, nonché a proteggere la vista. Infine, le bacche di gelso aiutano a combattere la stitichezza e a mantenere costante la glicemia nel sangue, mentre il loro succo contrasta la disidratazione.



Oggi, però, voglio parlarvi di una leggenda che il poeta Ovidio racconta nelle sue Metamorfosi a proposito dell'antico mito di Piramo e Tisbe.

Piramo e Tisbe - Pierre Gautherot

La prima volta che ho sentito la storia mi è sembrata familiare perché mi ricordava quella della tragedia shakespeariana di Romeo e Giulietta.
In effetti si crede che lo scrittore teatrale elisabettiano si fosse ispirato anche a questo racconto per la stesura del suo spettacolo. Come Piramo e Tisbe, Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti non possono passare momenti sereni a causa dell'odio delle due famiglie e si uccidono per restare per sempre uniti. 
Durante il Trecento, anche Giovanni Boccaccio e Geoffrey Chaucer riprendono il mito di Piramo e Tisbe per alcuni dei loro racconti. Nel Decameron di Boccaccio la quinta novella della settima giornata è assai simile al racconto dei due sfortunati amanti.

La storia:

Piramo e Tisbe erano due giovani babilonesi, vissuti durante il regno di Semiramide, e abitavano in case vicine. Nonostante i rispettivi genitori si odiassero a morte, i due si innamorarono presto. Dopo essere stati sorpresi a baciarsi furono rinchiusi ciascuno nello sgabuzzino del palazzo in cui vivevano. Ma, tramite una piccola fessura nel muro che separava le case, erano in grado di sussurrarsi le più tenere frasi d’amore.

Dopo del tempo, Piramo e Tisbe progettano un piano per fuggire: incatenare i loro guardiani e sottrarre loro le chiavi. La nutrice della fanciulla, una donna ingenua è molto facile da raggirare; Piramo, invece, si mette d’accordo con il suo guardiano, che finge di essere aggredito per consegnare  le chiavi tanto desiderate.
Il piano riesce e i due fuggono, girano per le campagne fino a quando non trovano un rifugio sotto un antico albero di gelso.  E lì, con la complicità del  tramonto, si amano… 
Poco dopo, Tisbe esce dall’oscurità per dirigersi verso una fonte vicina, ma si accorge che una leonessa, reduce da un pasto, sta bevendo proprio lì. La ragazza impaurita si nasconde in un antro buio e, nella foga, le cade il velo. La leonessa prende il velo e, giocando, lo lacera, e lo sporca con il sangue del precedente pasto.

Piramo, sopraggiunto dopo poco, vede il velo lacerato e insanguinato di Tisbe. Non trovando la sua amata, è colto da disperazione e, credendo che l’animale l'abbia uccisa, raccoglie il mantello, lo bacia e si trafigge con un pugnale.
Il sangue schizza in alto e i frutti della pianta di gelso, spruzzati di sangue, divengono scuri; la radice inzuppata continua a tingere di rosso cupo i grappoli di bacche. 
Nel frattempo Tisbe ritorna al luogo stabilito e cerca il giovane innamorato. Ritrova e riconosce la forma della pianta, ma il colore dei frutti la fa restare incerta. Mentre è in dubbio, vede un corpo agonizzante a terra, in una pozza di sangue, e rabbrividisce. 
Riconoscendo il suo amore, si batte le braccia, si tira i capelli, abbraccia il corpo amato e bacia il suo gelido volto. Piramo alza per un attimo gli occhi e li richiude. Tisbe riconosce il suo velo e, preso il pugnale di Piramo, si uccide. 
Prima di morire però rivolge ai genitori di entrambi la preghiera di restare uniti nella morte in un unico sepolcro, mentre all’albero di serbare il ricordo di questa tragedia e conservare in segno di lutto il colore scuro dei suoi frutti. 
Poi puntandosi il pugnale sotto il petto, si curva sulla lama ancora calda di sangue e si uccide.



E gli dei, impietositi accolgono la preghiera della giovane, permettendo  alle bacche del gelso, al momento di massima maturazione, di colorarsi per sempre di un rosso cupo e ricordare così il grande amore dei due giovani.