Buona lettura e buon ascolto.
Quando ti accadono
certi fatti, come è successo a me con le visioni degli ultimi tempi, credo sia naturale cominciare a
dubitare della persona equilibrata, che credi di essere, e ogni certezza nella
tua testa vada a farsi fottere. Sfido chiunque a controllare lo stato di
agitazione a cui si va incontro: con ogni cellula del corpo in fibrillazione… pensieri,
emozioni, che fan girare la testa… e vorresti fermare quella giostra in
movimento che gira – gira senza tregua.
Quando poi, tutto è
passato, provi a non pensarci. Cerchi di dedicarti ad altro, a una qualsiasi cosa
che possa scacciare lo stato confusionale creatosi nella mente.
Provi – riprovi, ma
il fatto ormai è lì, e pure il tarlo che si è insinuato nella mente.
Ieri è accaduto
mentre sto uscendo di casa per andare all’Università, il mercoledì ho lezione
di anatomia.
Mi vedo ferma su un marciapiede davanti a una strada e un negozio senza insegna. I capelli corti, sono lunghi fino alle spalle, e indosso un impermeabile con cintura in vita. Sono certa di essere ben sveglia eppure non sto vivendo il momento. Lo sto subendo in balia di qualcosa di incontrollabile.
L’immagine è
del tutto singolare.
Non ricordo di averla mai vissuta, né riconosco
il luogo, oltretutto il vedermi immobile e di schiena non mi dà alcuna certezza
di essere io.
Provo, come altre
volte, a scrollarmi le sensazioni di dosso e allungo il passo decisa a prendere
la metro delle 8:30. L’aria fresca, quasi pungente del mattino, mi fa
riacquistare un po’ di lucidità. Giunta in stazione, un odore di officina, un’aria
pesante riempie la banchina, il treno sopraggiunge subito dopo. Salgo sul
vagone affollato di gente in quelle prime ore del mattino, ma devo rassegnarmi a
stare in piedi appoggiata a una maniglia e… mi reimmergo nei pensieri.
In facoltà, prima
di entrare in aula per la lezione, faccio una sosta alla macchinetta delle
bevande per prendermi un caffè. Sono da sola e sto muovendo il cucchiaino nel
bicchierino di plastica, la bevanda scotta e aspetto si raffreddi quando mi
raggiunge un odore di arance amare, poi un aroma dolce di tabacco e
subito dopo la solita visione. In mezzo sento il suono di un clacson e la
sirena di un’ambulanza. Poi i rumori si attenuano lasciando spazio a delle note
musicali. Le riconosco subito, sono quelle del Notturno di Chopin. Il cuore
prende a battere a mille… palpitazioni dal petto risalgono fino in gola.
Mi guardo attorno
stranita, anche i suoni sono frutto della mia immaginazione? La stanzetta è silenziosa
e vuota… due giovani chiacchierano allegramente in corridoio… Oddio… È tutto
accaduto all’interno della mia testa.
Rovescio per terra
qualche goccia di caffè. Le gambe si fanno molli e allungo una mano per cercare
un sostegno. Ma cavolo, come si può vivere così?
-Si tratta di
allucinazioni? Sto diventando pazza? Mi dica. -
-Lei
è una ragazza carina e ha poco più di venti anni, giusto? –
La dottoressa sembra studiarmi.
Sono a disagio e ricambio lo sguardo soffermandomi sui tratti del suo volto
roseo, forse cinquantenne, che non tradisce alcuna emozione.
Mi viene caldo,
apro la cerniera del giubbetto di pelle e distendo le gambe accavallate.
-Mi ha detto di
aver perso suo padre circa un anno e mezzo fa. Da allora è diventata taciturna
e non ha amici, né un fidanzato. Cosa può raccontarmi di lui? -
-Dottoressa, è morto
d'infarto, una tragedia improvvisa a cui non ero preparata. - Deglutisco la
saliva, mi accorgo di fare fatica a parlarne, ancora il ricordo mi procura la
fitta di una stilettata al cuore.
-Avevamo un
rapporto speciale e mi sono chiusa in casa per una settimana. Un suono, o un
rumore diverso, e correvo alla porta. Ma era l’anno della maturità e, per non
rischiare di perderlo, ho dovuto riprendere le lezioni.
Era mio padre a guidare tutte le mie scelte, a
cominciare dalle lezioni di pianoforte. Mi piaceva molto suonarlo, sa, ma era
diventato troppo impegnativo e in quarta ginnasio lui mi fa smettere. -
Mentre ricordo,
rivivo quei momenti: sento la sua voce decisa, perentoria… quella dolce della mamma che cerca di dissuaderlo... le mie promesse… le
mie insistenze, e un sapore
amaro mi sale in bocca.
-Non l'ha più
suonato, neanche a casa? Cosa provava quando lo faceva? -
-Mia madre avrebbe
voluto. Lei diceva sempre che la musica è la voce con cui si può far parlare
l’anima e le era dispiaciuto molto non sentire più quei suoni in casa. Ma sa, la scuola mi impegnava parecchio e per mio
padre la musica era una distrazione che non potevo permettermi. -
La dottoressa mi
ascolta senza interrompermi, appare calma e mi incoraggia sorridendomi. Mi
soffermo a pensare, ma le parole fuggono dalla mente prima di essere formulate come
fossero migliaia di bolle di sapone. Sono confusa – frastornata - troppe
emozioni e, soprattutto - troppi ricordi dolorosi.
-Sentivo che aveva
grandi aspettative, forse perché ero l’unica figlia, ma non dicevo nulla. Il
classico… la laurea in medicina… Voleva mi specializzarmi in pediatria, mi
pare, il perché però non l’ho mai capito.
Sa, certi giorni, andare a lezione in facoltà mi
crea una sorta di inquietudine e agitazione. Credo sia ansia, ma ancora non ho
capito bene a cosa sia legata.
Qualche volta penso derivi dall’indirizzo di
studi che ho scelto, ma anche fosse… non avrei il coraggio di cambiare facoltà. Poi che potrei
fare?
Mio padre prendeva le decisioni, e io lasciavo
fare. Fin da piccola era stato così e adesso che non c’è più sono spesso indecisa su ciò che dovrei o non dovrei fare. Forse mi piaceva anche, in fin
dei conti voleva solo il mio bene.
Ho divagato, mi scusi, mi chiedeva della musica,
giusto?
Ecco, avevo trovato il modo di esternare ciò che
avevo dentro. Cosa esiste di più bello della musica per rompere il silenzio, per
tenere lontana la solitudine e rappresentare il sentimento del movimento?
Muovevo le dita, e su - giù, avanti - indietro, migliaia di scale solo per me.
Un fluido in divenire mi portava in un altro tempo… un’altra dimensione.
Come se volassi.
Altro non c'era di così trascinante. Trovavo facile
lasciarmi coinvolgere da quel linguaggio e dalle emozioni che nascevano dentro e
mi scaldavano il cuore. La musica rappresentava il mio salvagente,
un modo per evadere, quando mi sentivo troppo sola. -
La dottoressa s’è
fatta più attenta, non si trastulla più con la penna che tiene in mano e mi
sento incoraggiata a proseguire.
-Era questo,
dottoressa, questione di pelle… sì, perché quelle note arrivavano a sfiorarmi,
accarezzarmi con dolcezza. Un languore in pancia sentivo e brividi sulla pelle.
Non so se sono riuscita a darle un'idea. -
-Certo. Mi parli
ora dell’ultima visione. - La sua voce è calda, ma controllata e ciò mi
rassicura. Sono giunta all’ultimo racconto, e la tensione in me s’allenta.
-Ecco, sto rientrando
a casa e sono sulla metro, seduta. Il vagone è affollato come ogni sera. Sento
una voce, è di una bimba che parla con il padre. Ma non capisco cosa si dicono…
poi la vista mi si offusca. Tutti i suoni… il vociare dei viaggiatori… lo
sferragliare della metro sui binari… lo squillo di un cellulare, sembrano allontanarsi,
fino a farsi ovattati, deboli.
Chiudo gli occhi e mi raggiunge un aroma
dolciastro, leggero. L’ho già sentito…
Subito lo riconosco. È di tabacco da pipa, come
quello che usava papà. In una sorta di estraniamento, come fossi entrata in un sogno, lo vedo: è in piedi davanti a un negozio di musica, dalla parte opposta
della strada.
Mi sorride, e pare dirmi qualcosa.
M’incammino allora, voglio raggiungerlo. Provo
ad attraversare, ma a ogni passo la strada sembra allontanarsi, sempre un po’
di più, fino a scomparire. Riprendo coscienza di me. Riapro gli occhi. Mi
tocco. Le mie mani... le dita… provo ad aprirle a chiuderle… funziona. Sono
viva! Il soffitto della vettura, però, ondeggia e per un po’ non riesco a
realizzare dove mi trovo.
Quanto tempo è passato? Poi ricordo… Ho visto mio
padre… così reale la sua alta figura, il volto sorridente… che mi metto a
cercarlo con lo sguardo tra i volti che mi stanno attorno. Ma lui mi ha lasciato di nuovo.
L’esperienza mi porta un senso di stanchezza, mi
sento fiacca. Fuori dalla metropolitana, l'aria della sera di fine ottobre è
fresca sul viso, recupero un po’ di energia. Tiro su la lampo e il colletto
della giacca di pelle e d’improvviso sono leggera. Salgo le scale di casa a due
a due, saluto con un largo sorriso la vicina ficcanaso affacciatasi sul
pianerottolo, ed entro nell’appartamento.
È allora, quando entro nella mia camera, che mi
viene da pensare, di riflettere, sui miei limiti, dottoressa e capisco... Capisco che ci
sono situazioni che si possono combattere e risolvere da soli e altre, invece, che
necessitano di una richiesta di aiuto, altrimenti è un continuo scontrarsi con
i mulini a vento. -
La dottoressa pare
riflettere su quello che ho appena raccontato, e approvare la mia riflessione.
La guardo con più attenzione e solo ora noto i suoi capelli corti, bianchi e
ricci, i piccoli occhiali di metallo rotondi che toglie dal viso e posa sullo
scrittoio, la voce misurata e bassa, rassicurante.
-Non ha mai pensato
di avere qualcosa che la tormenta, e chiede di essere portata alla luce? -
-Non so - La guardo
confusa, non credo di aver capito cosa intenda.
-Vuol dire che le
ripetute visioni sono per ricordarmi di pensare a mio padre? Ma non ce n’è
bisogno, a lui penso ogni giorno. Ricordo spesso episodi piacevoli vissuti con
lui, e provo a ritrovare parte dello stato di benessere e di gioia di bimba… mi
vedo nel parco sul seggiolino della sua bicicletta, sulla neve con lo slittino…
in salotto seduti sul divano a conversare.
Però devo ammettere… non sono più in grado di
gestire le mie emozioni. Le tengo chiuse dentro quasi a proteggerle. Fa troppo
male, mi creda, affrontare il dolore e mi impongo di ignorarlo, sperando se ne
vada da solo. -
-Cara ragazza, ha mai provato a fare qualcosa
che le dia piacere? Al di là di quello che direbbe suo padre? Mi dia retta, torni
ad ascoltarsi, così come faceva quando suonava, e dia vita ai suoi desideri.-
Ascoltarmi… non lo faccio da così
tanto tempo, forse non l’ho mai fatto veramente. Da che parte comincio?
***
Prendo a camminare
lungo i portici delle strade del centro, soffermandomi davanti a qualche vetrina,
la gente mi passa accanto, qualcuno mi urta. Sembra che tutti abbiano fretta di
tornare a casa. L’aria è piacevole, e mi
scopro improvvisamente attratta da ciò che mi circonda.
Un paio di scarpe
colpiscono la mia immaginazione: sono in vernice nera, di linea semplice, mi
piacciono, ma hanno i tacchi a spillo. Guardo ciò che indosso abitualmente: gli
stivaletti alla caviglia, bassi, la dolcevita di lana gialla, i jeans in
stretch neri, e penso che forse non sarebbe male se mi fermassi a comprare
qualcosa di diverso. Magari un abito a tubino in maglia, come quello che ho
appena visto nel negozio a fianco e magari un profumo e un fondo tinta.
-Con il colore dei
suoi occhi, a pagliuzze verdi e marrone, il verde salvia andrà benissimo. - Mi
dice, sorridendo, la commessa della profumeria, quando le chiedo un consiglio.
Non ho mai usato l’ombretto, ma vada anche per quello.
La
dottoressa mi ha rassicurato, e mi sento in vena di fare pazzie. -Forse ci
vorrà ancora qualche incontro perché le visioni scompaiono del tutto, ma come
sono arrivate se ne andranno. -
-Dare tempo al tempo – così mi ha suggerito e io
non ho fretta.
A casa, mia madre
non c’è, l’appartamento è avvolto nel silenzio. Meglio, ho ancora bisogno di metabolizzare la folla di pensieri che mi passa per la testa.
Il pianoforte, il
mio fedele amico è ancora lì. Stranamente questa sera pare guardarmi, invitarmi.
Mi soffermo a osservarlo e sento una languida nostalgia salirmi in petto. - Mi
sei mancato tanto, gli dico, sfiorandolo con una mano. -
Porto gli acquisti
in camera da letto e torno rapida in salotto. Quando mia madre rincasa, sto
suonando le prime note del Notturno di Chopin. Non mi accorgo della sua
presenza alle spalle, così dolcemente coinvolta e persa nel suono di quelle
note.
Dopo le prime incertezze, le mie dita riacquistano la naturalezza e la scioltezza di una volta. Le sento, le vedo muoversi: su – giù, avanti – indietro… leggere sui tasti neri, bianchi… cavalcano una melodia che mi trascina lontano. Che bella sensazione! Tutto attorno a me scompare, s’annulla in quel suono che muove tra le righe dello spartito. Il tempo si allenta come una trama che perda consistenza. Entro in un sogno fatto d’armonia e di piacere. Incontro pure mio padre che pare incoraggiarmi, come quando bambina muovevo i primi passi. Non sono più io che suono, qualcun altro mi guida all’abbandono, a un trasporto ristoratore. La contrattura alle spalle, di poco prima, scompare, tutto il corpo si lascia andare, e pare non avere più peso. I pensieri s’arrestano.
È la musica a
parlare per me, a esprimere ciò che non sarei mai capace di fare con le parole.
Ed eccola la
poesia, materializzarsi, concretizzarsi in qualcosa di assoluto. Cosa può
esserci di più affascinante e liberatorio di questa poesia dell’anima?
Stefania Pellegrini
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Complimenti per questo racconto, come sempre avvincente, delicato e così ben centrato sulla musica! Il Notturno che hai scelto esprime bene lo stato d'animo, i ricordi della protagonista e quel vago senso di mistero che hai così ben descritto.
RispondiEliminaSpero che questo commento ti arrivi, perchè ultimamente faccio molta fatica a commentare diversi blog .
Un abbraccio di buona serata!
Grazie Annamaria, sono contenta tu abbia apprezzato. Si tratta di un racconto scritto l'anno scorso per un esercizio di scrittura, ed è rimasto in un cassetto fino a ora perché non mi convinceva molto. Qualche settimana fa l'ho ripreso in mano e ci ho di nuovo lavorato sopra per pubblicarlo. Grazie mille, un abbraccio e buona serata a te:
EliminaAvvincente questo racconto, e molto apprezzato per quell'alone di mistero. Grazie. Buona serata, Stefania.
RispondiEliminaScrivo spesso quello che mi passa per la mente, a volte sono idee che richiedono tempo per essere costruite e non mi rendo mai conto di quello che può percepire il lettore, quindi grazie.
EliminaUn racconto che coinvolge e ti fa viaggiare nel vento della vita...pensieri ed emozioni che fanno girare la tesa e accendono un sogno. Complimenti
RispondiEliminaCiao Simo, ben ritrovata. Felice che ti sia piaciuto. Buona serata.
EliminaCome dico sempre: maledetti papà! quante ne combiniamo...
RispondiElimina😀
Molto carino il racconto, molto dolce.
L'importanza di ascoltarsi.
Brava