se ce n'è uno, è quello che è già qui…”
Ispirato da una storia vera.
Alcuni fatti sono realmente accaduti, solo, in piccola parte, la fantasia mi ha aiutato a raccontarli.
Vi siete mai chiesti cosa spinga una persona
a lasciare il proprio Paese per rifugiarsi in un altro Stato completamente
diverso dal proprio? Forse pensate lo faccia per un suo capriccio, ma non è
così, non è mai così, dietro c'è quasi sempre la disperazione, che devasta, logora. La disperazione di vivere situazioni molto gravi, come una guerra… la carestia…la povertà, e la speranza, a volte l'illusione, di potersi mettere in salvo da tutto questo, perché non ci si libera mai del tutto da ciò che si è visto, sofferto, ce se ne allontana solo. Partire non è mai facile, abbandonare la
propria terra, rinunciare ai suoi odori, ai colori, alle voci della propria
gente, non è mai senza sofferenza. Non hai una scelta quando ti trovi nella
situazione in cui mi trovavo io allora, puoi solo andartene affrontando il
Viaggio… e non basta che ti dicano che sarà lungo e pieno di insidie, che ti aspettano violenze di
ogni genere, soprusi, e sofferenze, ti illudi di essere più fortunato e vai.
Mi chiamo Sami e sono arrivato in Italia
su un barcone in ferro nel 2018 dal Niger. Questa è parte della storia di quel Viaggio e di quello che ho dovuto superare per essere qui oggi.
Appena diciottenne ho lasciato il Niger
perché avevo perso i miei genitori, i nonni e la casa, non mi restava più niente. Pensavo che non poteva che andare meglio da lì in avanti. Mi
pareva di aver toccato il fondo e di poter permettermi di ignorare i rischi a cui andavo incontro.
Sognavo di raggiungere la Germania, sognavo una vita senza ristrettezze, e in quel paese, mi dicevano, c’è lavoro per tutti, si vive bene. Così ero partito pieno di speranze con quello che restava della mia famiglia, il mio fratellino di quattordici anni Kwami.
La morte dei nostri genitori ci aveva
tolto l’illusione di poter ancora immaginare un futuro sulla nostra terra.
Eravamo soli. I nostri tre fratelli più grandi l’avevano già abbandonata per
sfuggire alla grande povertà che si respira dappertutto, persino la vegetazione pare rassegnata a una morte lenta, e triste. Non volevamo lasciarla quella terra, era la nostra terra,
ma neanche cedere al passo della natura. Eravamo giovani e pieni di vita, ci
sentivamo in grado e il diritto di cercare un futuro migliore.
Ogni giorno assistevamo alla partenza di qualche
nostro vicino e questo alimentava il coraggio e la forza necessari per osare
anche noi. Ma non avevamo i soldi per il
Viaggio. La città dove abitavamo è in mezzo al deserto, là non piove mai, e c'è
pochissima acqua per tutti. In un solo luogo si può trovare lavoro ed è una
cava di sale, dove abbondano solo fatica e frustrazione. Io già lavoravo alla
miniera, scavavo a mano il sale nella roccia, e avevo fatto assumere anche mio
fratello. Ma quel momento sembrava non arrivare mai e l’attesa fu lunga, benché mettessimo da parte quasi tutto ciò che
guadagnavamo. I soldi che prendevamo ogni giorno erano pochi per avere di che vivere e risparmiare. Dovemmo fare non pochi
sacrifici.
C’è voluto un anno, un anno per riuscire a partire su un vecchio pulmino insieme ad altri 16 disperati come noi. Il conducente aveva con sé la famiglia e questo, sul momento, mi aveva dato l'illusione di essere al sicuro. Pensai che potevamo fidarci di lui. Il tempo impiegato per superare il tratto del Sahara non è mai uguale. Di solito, un viaggio dura quattro giorni, noi ce ne mettemmo dodici. Avevamo a disposizione delle taniche di acqua ma, con il caldo che faceva, non duravano a lungo.
Sapevamo che il deserto era una prova
dura del Viaggio, lo si apprende abbastanza presto dai racconti degli altri, ma
non mi ero mai avventurato oltre il mio paese così non avevo una vera idea di come fosse
realmente.
Quando mi trovai dentro, mi accorsi
che era molto peggio da come l'avevo immaginato, ma ormai era troppo tardi per
tornare indietro.
Ti trovi in mezzo a una distesa di
sabbia infinita, talmente omogenea che finisci per diventare sabbia anche
tu. Tutto si espande, si moltiplica,
anche la paura di non uscirne più.
Nel deserto non ci sono strade,
sentieri. Ogni mattina, i segni di pneumatici della sera precedente vengono
ricoperti dalla sabbia sollevata dal vento, cancellati per sempre.
Di giorno il sole batte così forte che
l'acqua in dotazione bastava solo per qualche ora, e dovevi aspettare il tramonto
prima del nuovo rifornimento. Di sera, sembrava di viaggiare in un incubo:
senza luci, schiacciati in mezzo ad altri corpi, su un pulmino sgangherato, che
poteva lasciarci a piedi da un momento all'altro.
Il deserto t'annulla i pensieri,
l'anima. Chi non l'ha visto, come l'ho vissuto io, non può immaginare:
l'inferno è lì. È facile incontrare scheletri umani, senza odore, perché
secchi, arsi dal sole. Ti rendi conto che ogni ora, ogni giorno potrebbe essere
l'ultimo. Devi guardarti da tutto, e tutti, il nemico è ovunque, e non parlo di quello che puoi vedere, ma dell'invisibile che ti sorveglia e ti segue.
Dovunque ti giri, di notte, di giorno,
vedi solo e soltanto sabbia. Se ci passi settimane, quella polvere leggera,
rossa, quei granelli, ti entrano nelle ossa, nel cuore, ti riempiono gli occhi,
i polmoni. Te la trovi nella saliva, nella gola. Anche se bevi e ti
lavi non te la togli più di dosso.
Il pulmino procedeva a sobbalzi,
affondava nella sabbia, avanzava lentamente. Per la notte ci fermavamo a
dormire, quando andava bene era al riparo di qualche roccia.
- È già successo - dice il nostro autista, e ci intima di risalire a bordo, vuole ripartire senza aspettarlo. S'arrabbia. Quando vede
che nessuno di noi si muove, alza la voce, grida minacciando di abbandonarci in
mezzo al deserto.
Sale alla guida e indietreggia con
rabbia senza guardare dietro. Sentiamo un colpo. Un suono sordo, il mezzo ha
urtato qualcosa. Ci avviciniamo: sulla sabbia poco distante c’è il corpo di un
bambino, il suo bambino. Non respira più… è morto. Ci mettiamo a piangere, a
suo modo, ognuno prega per l'anima di quel piccolino morto. La madre prende a
gridare disperata, e si rivolta verso il marito sferrandogli pugni sul petto.
Il trafficante resta freddo, la sua
faccia è inespressiva e lo sentiamo pronunciare solo: - Allah Gha Lem - “Dio dà
e prende”. Seppellisce il figlio e riprendiamo il Viaggio. Nulla è cambiato per
lui, ci batte con il bastone e continua a minacciarci.
Non si dimentica… come si può dimenticare?
Non ci si abitua alla violenza, alla crudeltà. Come può accadere che un padre
non provi dolore, rimorso, per essere stato la causa della morte del proprio
figlio? L’ho rivisto spesso nei miei sogni… là disteso, privo di vita, con il
volto affondato sulla sabbia rossa di sangue, le braccia e le gambe contorte come
una marionetta e ho provato dolore per quella giovane vita stroncata e per
quell’uomo venale e gelido. Magari scrivendone troverò un luogo più sereno a
questi ricordi. Chissà… un luogo dove il mio cuore li terrà senza provare più
dolore. No! Ciò che è stato non si dimentica, ma in qualche modo è anche giusto
così, è parte del mio passato, di me, ne ha fatto l’uomo che sono adesso.
Lo guardo, gli occhi gli si sono fatti
velati, distanti, non reagiscono alla luce, ai miei richiami. Capisco che si
sta lasciando andare.
Gli grido: Resisti!
Provo a fargli bere un po' della mia
acqua. Cerco di tirarlo su, lo prendo per la camicia, lo scuoto. L’acqua
scivola, scende lungo i bordi della sua bocca, mi accorgo che non deglutisce più.
Lo vedo afflosciarsi. Ha il viso
freddo, cerco di sorreggerlo ma non serve a niente, improvvisamente sento la sua testa scivolare sulla mia spalla. Capisco… realizzo che non è
più con me, il viso ha perso ogni espressione. Mi ha lasciato, la sua anima è volata via.
In mezzo a gente indifferente sento il
mio grido disumano salire sul lamento degli altri, sento la forza del mio
dolore, la mia disperazione, ma… subito sono richiamato al silenzio… non è
ammesso neanche quello… lo soffoco in un lamento, il trafficante sta
imprecando, minacciando di farmi scendere e di lasciarmi in mezzo al deserto.
Siamo rimasti in meno di dieci. Dopo
qualche ora, anch'io comincio a sentirmi strano, mi gira la testa. Il sole è
cocente.
Provo a chiudere gli occhi. Vedo
uccelli in un cielo azzurro… mio fratello Kwami... sta volando con loro e mi
chiama… mi tende una mano. Io cerco di afferrarla ma d'improvviso lui la
ritira.
Precipito, apro gli occhi, sono tornato nell'inferno, di
nuovo su quel mezzo, insieme ad altri che implorano un po’ d’ acqua.
I compagni di viaggio sopravvissuti,
con le poche forze rimaste, si abbracciano euforici, oltre c’è la salvezza. Io
respiro ancora, ma mi sento come morto dentro, mio fratello mi manca, avrei
voluto tanto gioire con lui questo momento… invece sono solo.
Davanti a me l'orizzonte si sta
tingendo di rosso, sorride lui generoso, e penso che a me un altro giorno è
dato ancora. Vorrei essere morto io, invece sono qui… con il cuore attanagliato
da una morsa. Tento di deglutire, nel disperato tentativo di scacciare
quell'oggetto estraneo nel petto, che preme, preme togliendomi metà del fiato.
La luce si fa sempre più prepotente in cielo, la Libia è vicina, forse siamo
salvi. Cerco di lasciarmi contagiare, pensando che il peggio è alle nostre
spalle. Il destino è stato crudele decidendo che fossi solo io ad avere una
ulteriore opportunità, ma non mi resta che accettarlo e benché mi sia rimasta
la sensazione che il cuore continui a farmi male, sento pian piano il groppo in
petto sciogliersi.
In quel momento non so ancora che l’inferno continuerà finché non avrò raggiunto l’Italia, ma questo
è parte di un’altra storia.
Drammi di cui pochi hanno voglia e forza di parlare, meglio girarsi dall'altra parte o banalizzare tutto senza mai approfondire.
RispondiEliminaBrava che l'hai fatto