venerdì 1 marzo 2024

Il tempo di kalima

 



7 ottobre 2016

Oggi ho visto la mia nuova scuola.

Sono felice, la mamma mi ha detto che lunedì posso cominciare ad andarci. È grande, gialla con tante finestre. Ha un cortile dove si può giocare o solo parlare con i compagni, quando fa bel tempo. Lo ha detto una signora gentile alla mamma. 

Comincia così la prima pagina, scritta in arabo, di un quadernetto a fiori rosa che Raya ha trovato per caso tra il materasso e la rete del letto della figlia Kalima. Adesso ricorda, glielo aveva regalato quando erano arrivati in Italia e non lo aveva più visto in giro.

Non so se lei sarà la mia maestra, ma spero proprio di sì.

Anche quella della mia vecchia scuola era gentile, ma sorrideva meno, forse perché insegnare a tanti bambini in una stanza molto piccola non era facile per lei.  Devo raccontarlo al papà stasera quando torna a casa, devo dirgli che la mia nuova classe è grande come tutta la mia vecchia scuola. 

Sono passati quasi due anni dall’ultima volta e non vedo l’ora di ricominciare, a scuola si scoprono tante cose e poi si fanno giochi, si canta. Nella vecchia scuola lo facevamo sempre.

Mi manca, mi mancano la voce della maestra, dei miei compagni, i loro scherzi, anche se a volte erano un po' stupidi.

Non sarà mai più come prima, quando la nonna mi accompagnava a scuola e il sole era una palla di fuoco alta in cielo. La nonna non c’è e il sole qua certi giorni si nasconde dietro le nuvole. Da dove arrivo io, tutto è così luminoso, caldo e ha profumi speciali. Mi mancano i nonni, i cugini, e gli zii, tutti mi mancano.

Dove saranno ora? Anche loro sono dovuti scappare per colpa del mostro d’acciaio. Lo chiamavano così i miei amici. Ma io non ho mai visto nessun mostro, solo fuoco che bruciava un po' ovunque e polvere. Tanta polvere, mura di case crollate e gente impaurita che raccontava di uomini che arrivavano dal deserto su grosse camionette e sparavano con i fucili a chiunque.

Non ho avuto tempo per pensare alla paura perché siamo fuggiti prima che arrivassero al mio villaggio, ma dopo sì, ho scoperto cosa vuol dire avere il cuore in gola, le gambe che tremano, le notti piene di sogni brutti. Ho visto la mamma piangere, il papà preoccupato di non riuscire a metterci in salvo. È stata lunga, ma adesso possiamo tornare a vivere tranquilli, me l’ha detto la mamma e io ci credo. Poi lunedì vado a scuola e sono felice!

 

10 ottobre 2016

Eccoci, Il grande giorno è arrivato. La mamma mi ha infilato perline colorate nei capelli e mi ha fatto tante treccine. Per l’occasione ho un bel camicione blu e una vicina ci ha regalato delle scarpe che erano di sua figlia, ma sono belle e sembrano nuove.

Al mio villaggio delle volte non le portavo, ma a scuola la mamma mi ha detto che devo vestire come gli altri bambini. In questo paese le cose sono diverse dal mio, l’ho capito il giorno che sono scesa dalla barca. Ci hanno soccorso persone vestite con grosse giacche gialle e non capivo niente di quello che dicevano, però ci hanno messo addosso delle coperte e dato subito da bere e da mangiare.

Il papà mi aveva parlato di questo paese, ma non sapevo come fosse. Ora però sono felice e penso anche la mamma. Però se avessi gli amici, la maestra di prima, sarei più felice.

Sono entrata in classe, la mia nuova maestra mi ha presentato ai compagni, tanti ragazzini allegri che ridevano, si davano pacche sulle spalle. Ma al mio arrivo hanno smesso di parlare e mi hanno guardato come fossi scesa dalla luna. Avrei voluto essere da un'altra parte, non ho parlato, ho abbassato la testa e in silenzio mi sono seduta all'ultimo banco. Per fortuna il bambino vicino a me arriva dalla Siria e conosce già meglio la nuova lingua, così mi traduce e io intanto mi segno le parole che devo imparare.

Però quando ci hanno fatto uscire in cortile è successa una cosa spiacevole. Lì ho trovato tanti bambini e bambine anche più grandi di me, qualcuno ha smesso di parlare e si è messo a guardarmi e parlottare   con il compagno. Un ragazzino grande mi ha dato una spinta che mi ha fatto cadere a terra, poi ha sputato verso di me. Per fortuna è arrivato Admir, il bambino siriano e mi ha portato in un luogo nascosto che conosce solo lui.

Quando sono tornata a casa l’ho raccontato alla mamma e al papà, ma loro non hanno detto niente. Parlottavano tra loro, non ho capito cosa dicessero, perché mi hanno mandato in camera. Tanto a scuola ci vado io, cosa importa a loro quello che accade lì.

 

31 ottobre 2016

Sono giorni che le cose non vanno bene. A scuola i compagni mi evitano, se ne stanno per conto loro e io sono spesso sola e poi non capisco granché di quello che dicono. È tutto difficile, e non si canta mai. Però ho una maestra, un’altra, che segue solo me e mi aiuta nei compiti.

Per strada, quando torno a casa, i ragazzini mi fanno strani gesti e mi dicono parole che non capisco. Sarà per le treccioline che la mamma mi fa ogni mattina? O per i vestiti che metto? Admir mi ha consigliato di continuare a camminare senza guardarli e di non rispondere. E così faccio ogni giorno, ma le cose non cambiano.

Quando sono tornata a casa ho detto ai miei genitori che non sarei più andata a scuola, che volevo tornare indietro dai nonni. Mi sono arrabbiata, ma loro non mi hanno ascoltato, così mi sono nascosta in un angolo a piangere.

La casa, dove abitiamo ora, è piuttosto piccola e dobbiamo dividerla con un’altra famiglia. Io dormo in una stanza con il fratellino e i miei genitori. Papà ci aveva promesso che sarebbe stato per poco, ma deve avere un lavoro fisso, dice lui. E anche oggi è tornato a casa prima, perché al mercato, dove porta le cassette della frutta, non c’era più bisogno di lui.

Nella mia casa di prima, invece, avevo una camera tutta mia. Adesso che è tutto in comune, non so più cos’è il silenzio, e cosa significhi fare i compiti in pace. 

Papà al paese faceva il dottore, ma qua non hanno bisogno di dottori come lui, e poi è senza permesso di soggiorno così, deve fare sempre lavori diversi, per portare a casa qualcosa da mangiare.

 

12 novembre 2016

La mamma è triste. La vedo piangere spesso, mi dispiace e non so cosa fare. Da qualche giorno lascia il fratellino alla famiglia che abita con noi e va a pulire le scale di due case vicine, ma quando torna è tardi ed è molto stanca. L’ho sentito mentre ne parlava con il papà, perché a me non aveva detto niente. In casa però le cose non sono cambiate: il cibo è quello che è, la mamma delle volte dà da mangiare solo a noi tre. Ha sempre il solito vestito addosso, e non mi fa fermare a scuola. Ho scoperto che non ha i soldi per pagare la mensa.

Non sono più felice, anzi oggi sono triste come la mamma. “La vita è fatta anche di rinunce, di problemi da risolvere”, mi ha detto il papà oggi, ma questo non cambia le cose.

La donna sente un nodo salirle alla gola, e non riesce a controllare le lacrime che lente e silenziose cominciano a scivolarle lungo il viso.  Cerca un fazzoletto per soffiarsi il naso. Si ricompone, si siede sul letto e riprende a leggere.

Sai sono contenta di avere conosciuto almeno te e di avere qualcuno a cui raccontare i miei pensieri. Anche se è solo da tre giorni, la tua compagnia mi fa stare meglio e mi sento meno sola.


10 gennaio 2017

Ho scoperto che stiamo aspettando il permesso di soggiorno e se papà perde quest’ultimo lavoro, ci possono rimandare indietro al paese. Sarebbe bello, io potrei riabbracciare i nonni, ritrovare la mia vecchia scuola, gli amici. Tu non ti preoccupare, ti porto con me, sono sicura che la mamma sarà d’accordo.

Ma ho paura che le cose non siano così facili come penso, mamma e papà hanno gli sguardi preoccupati.

A dimenticavo, devo dirti una cosa, ma tu non arrabbiarti con me. Ho rotto il nostro segreto. Non so cosa mi sia preso. Ho parlato di te ad Admir, forse pensavo mi avrebbe capita.  Mi ha chiesto di conoscerti, ma quando gli ho detto che ti lasciavo a casa e apparivi solo a me, si è messo a ridere. Allora gli ho parlato della tua pelle bianca, gli occhi azzurri, i capelli lunghi biondi, e gli ho detto che ti chiami Farah. Così lui sempre ridendo mi dice che in realtà non esisti e che sono troppo grande per avere un’amica immaginaria. Ma non m’importa, lui è un maschio e non capisce queste cose.

 

12 gennaio 2017

Ieri in cortile a scuola sempre il solito bambino maleducato, mi ha gridato dietro:

” Sporca straniera, torna al tuo paese”. Non so perché, io non lo conosco nemmeno. Ma questa volta i miei compagni di classe mi hanno difesa e hanno dato una spinta al ragazzino. Poi hanno chiamato la preside, e le hanno raccontato l'accaduto, così lei lo ha sospeso da scuola per due giorni.

“Quando finirà?”

Non sono d’accordo con la mamma quando mi dice che noi in questo paese siamo ancora ospiti e capiterà sempre di incontrare persone un po’ ostili che ci vedono diverse da loro.

Però i grandi non li capisco un granché, mi avevano promesso che qua saremmo stati felici e invece non è così. Stamattina a scuola, mentre la maestra spiegava, mi sono chiesta se la felicità si possa comprare, e a quale il prezzo? Comunque, se anche si potesse, per adesso, non abbiamo soldi.

 

8 febbraio 2017

Non ho più scritto, è passato quasi un mese, lo so, ma a parte le solite cose, non sapevo che raccontare. 

Oggi invece è successo qualcosa a scuola che mi ha agitata tutta.

Sai quel bambino maleducato? Sì, sempre lui, si è sentito male in cortile ed è caduto a terra. Agitava le gambe e le mani mentre una bava bianca gli usciva dalla bocca.

Gli altri bambini e le maestre erano quasi tutti rientrati in classe, c'ero solo io poco distante da lui. L'ho visto, ma non sapevo che fare.  Grido, vado a chiamare gli insegnanti? Capivo che dovevo fare qualcosa ma mi sono bloccata a guardarlo, pochi secondi, credo, che mi sono sembrati un'eternità, poi mi è venuto in mente una cosa che avevo visto fare al papà al villaggio mentre soccorreva una bambina che non stava bene. Ho tirato fuori dalla tasca del grembiule il fazzoletto che la mamma aveva messo la mattina, ho aperto la bocca al bambino e gliel'ho messo tra i denti. Al tempo papà mi aveva spiegato che era una cosa da fare alle persone quando gli esce la bava dalla bocca, perché non si mordano la lingua. Poi sono andata a chiamare qualcuno.

C’è stata confusione, le maestre sono accorse, è arrivata l’ambulanza, hanno caricato il bambino su una lettiga e l’hanno portato all’ospedale. Stamattina tutti parlavano di me e di quello che avevo fatto, come di qualcosa di speciale che gli ha salvato la vita.

La preside mi ha chiamata nella sua stanza, mi ha fatto un sacco di domande, poi mi ha detto che ero stata proprio brava. E i miei compagni in classe mi hanno circondata, tutti voleva dirmi qualcosa.

Ho saputo che il bambino sta meglio e, anche se con me è sempre stato maleducato, sono contenta per lui.

        Raya sfoglia altre pagine, vede dei disegni: una casetta, un grosso sole rosso, una bimbetta per mano a una donna, dei bambini che giocano all’aperto… ma il racconto finisce così. Spossata si lascia andare sul letto, e aspetta che quel groppo, che le stringe la gola, si sciolga. Copiose lacrime le assalgono gli occhi, è devasta dentro e in qualche modo anche fuori. A fatica cerca di controllare il tremore delle labbra. Non si aspettava quel ritrovamento. Lì c’è il mondo di Kalima, i suoi pensieri, le sue emozioni. Si passa un avambraccio sul volto ad asciugare le lacrime, e con l’altro stringe il diario al petto, mentre mentalmente ringrazia la figlia per quel suo dono inaspettato.

Il tempo di Kalima, il suo tempo è tra quelle righe. Kalima è lì, si ripete, e quando sentirà troppo la sua mancanza, le basterà aprire quel quadernetto e scorrerne qualche pagina. Sarà come averla ancora accanto e quello che c’è stato dopo non sia mai avvenuto.


Stefania Pellegrini ©

DIRITTI RISERVATI

 

 

 

 

 

 

 

 

 


lunedì 29 gennaio 2024

Quel disco dei New Trolls

 


Torno con un racconto, scritto qualche anno fa, che non avevo mai  pubblicato. A suo tempo non mi convinceva molto, e l'avevo accantonato. In questi ultimi giorni l'ho riveduto e ve lo propongo oggi.

BUONA LETTURA!


Collezionava oggetti per la sola idea che fossero appartenuti a qualcuno, convinto meritassero un’altra occasione. Dietro di essi c’era un vissuto, una storia, che avrebbe scoperto volentieri, ma fino ad allora non ne aveva trovato il modo.

La sua grande passione erano i 33 giri degli anni ’60, ’70; in cantina ne contava un'intera collezione, ormai più di un centinaio. Era attirato dalla copertina, dal colore sbiadito, da certi segni, o scritte, che, in qualche modo, gli parlavano dei precedenti possessori.

In pensione da qualche anno, aveva tempo a sufficienza per andare ai mercatini dell'usato, e una volta alla settimana dal rigattiere dietro l'angolo, ma faceva attenzione a comprare un pezzo alla volta per evitare discussioni con la moglie che era stufa per la cantina ormai piena delle sue cianfrusaglie. La stanza stretta e lunga ricordava più un sottoscala, e di spazio libero se ne trovava ormai ben poco.

La donna era un po’ preoccupata per l’hobby del marito, più vicino alla compulsione, alla mania, ma per il buon vivere cercava di avere pazienza.

Una mattina però, all'ennesimo vinile che l’uomo portò in casa, non riuscì a trattenersi da dirgli qualcosa, ne aveva fin sopra i capelli di quegli oggetti, ma cercò di controllarsi per evitare una lite e gli suggerì semplicemente:

- Al mercatino in paese, sai quello che fanno ogni fine mese, l'ultima volta che sono andata c'era un banchetto di orologi fatti con dischi in vinile. Avessi visto, erano proprio carini, e originali. Ho visto qualcuno fermarsi a comprali. –

- Perché non provi anche tu? Secondo me li venderesti - Prese fiato per spiare la reazione del marito, poi aggiunse: Pensa avresti la possibilità di dare a questi dischi una nuova vita, e ti sbizzarriresti con la fantasia. Che ti costa Antonio, tuttalpiù ti sarai divertito, e avrai passato un po' di tempo. –

L’uomo non ebbe alcuna reazione, rimase in silenzio, e la donna pensò che finalmente si sarebbe liberata di quegli oggetti, magari di non tutti, ma chissà... Il marito ne aveva di fantasia e capacità di progettare, qualcosa si sarebbe inventato. 

***

Nei due giorni che seguirono il marito trascorse molto tempo tra cantina e garage, ma la donna evitò di fare domande e di tornare sull'argomento.

Il terzo entrò nella stanza per prendere delle mele che teneva in una cassetta di legno e, trovandolo in mezzo ai vinili sparsi dappertutto: sopra la dispensa, sul tavolo da lavoro, per terra, non riuscì a contenersi. E con voce irritata espose:  

- Cavolo Antonio, ma non vedi che non riesco neanche a passare per prendere le patate? Intendi fare ordine così? -

- Come pensi di uscirne da questo casino? -

- Aspetta, non arrabbiarti. – Replicò l'uomo.

- Prima vieni a vedere - aggiunse, mostrando la copertina di un 33giri dei New Trolls e delle scritte, a penna, annotate sul retro.

- Leggi! Leggi qui in alto. –

- Vedi, c'è scritto: Alex e Viviana, e poi questi numeri: 26560, 54840. Secondo te sono numeri di telefono? C'è anche il timbro del negozio di dischi. Hai visto? -

- Ma che importanza vuoi che abbiano. Se anche fosse? Non penserai mica che i numeri siano ancora attivi? Il negozio è chiuso da anni e l’album sarà del 1968 o ’70. -

-Se va bene, sono passati quarantotto anni. -

-E poi cosa vorresti scoprire? Lascia andare, piuttosto tira su tutto, che fra un po' non si entra neanche più. - Concluse ancora contrariata.

Prese le mele, e uscì.

Antonio, però, non era certo tipo da scoraggiarsi. Ah, le donne con la mania dell’ordine… pensò... lasciar perdere, dovrei lasciar perdere, perché? Se avessi dovuto arrendermi al primo ostacolo, non avrei combinato nulla nella vita. No, devo andare avanti.

Con la copertina del disco ancora in mano gli venne in mente Carlo, un suo amico.

Giusto, perché non ci ho pensato prima?

 È nel campo della musica… e suona ancora.

Ottimo. Sono sicuro che lui saprà suggerirmi qualcosa. Si disse soddisfatto.

Lo chiamo subito. 

- Mi dispiace, - gli rispose Carlo - non saprei dirti. Si fece silenzioso, poi aggiunse: - Aspetta, mi è venuta un’idea. –

- Prova a chiedere al nuovo negozio di strumenti musicali in Via dei platani… magari loro… ma è passato del tempo, non so… -

 ***

Al negozio, il proprietario non seppe dirgli alcunché, il disco era più oggetto per collezionisti o per i mercatini dell'usato e gli suggerì di chiedere a loro.  Di tutt’altro avviso fu invece il commesso che stava uscendo in quel momento dal retro bottega.

- In effetti - gli disse - è passato un uomo, un paio di settimane fa, cercava proprio un vecchio album dei New Trolls.

- Ha lasciato un biglietto con un numero di telefono, nel caso avessi avuto delle novità. -

- Aspetti, l’ho scritto qui. – Aggiunse, estraendo un foglietto ripiegato da un cassetto.

Antonio ringraziò ed uscì. Appena fuori dal negozio, digitò il numero sul cellulare. Doveva andare subito a fondo della cosa, verificare se era lui il proprietario del suo LP. Quando gli sarebbe capitata un'altra occasione?


        Rientrando a casa raccontò alla moglie ciò che gli era successo. Ma fu evasivo.
       -… Pensa un po’, quell’uomo stava cercando proprio il mio disco. Così gli ho detto che glielo regalo, tanto con tutti quelli che ho... Domani glielo porto. -
    Sembrò riflettere un momento e dopo aggiunse: - Sai che quei numeri erano proprio come pensavo? Numeri telefonici.–

    La moglie non fece domande e lui non aggiunse altro. Doveva evitare che lei riportasse tutto alla vicina, come faceva spesso. Quella storia era sua e sua sarebbe rimasta per sempre, a nessuno avrebbe permesso di sporcarla con qualche pettegolezzo inopportuno.

    In seguito rivisse spesso l’incontro con quell’uomo e ciò che aveva scoperto su quel disco. La storia di Giovanni gli aveva lasciato una sensazione vaga di tristezza che non sapeva spiegarsi né tantomeno disperdere facilmente. 

-… Il pallone da football, i vestiti, le coppe vinte giocando a tennis, tutti i dischi... persino le foto. Era sparito tutto ... Avevo pianto. Me l’ero presa con lei - gli aveva raccontato - e con il suo egoismo, ma ce l’avevo anche con il mondo intero, avevo una rabbia dentro che mi dava non pochi problemi a scuola e con gli amici. Diventai un ragazzo difficile.
Perché cancellarne la presenza? Soprattutto a me? Non lo capivo. Per settimane non le ho rivolto la parola e per lungo tempo ho covato nei suoi confronti una rabbia sorda. L’ho odiata. Stavo male e lei non capiva… Mi era rimasta solo lei, mio padre era morto in un incidente sul lavoro, qualche anno prima e mi sentivo smarrito, confuso. Possibile che non lo vedesse? Avevo appena dieci anni, ero un bambino.
Quella mattina di primavera, Alex prende la moto perché ha perso l’autobus per andare a scuola. Mia madre gli dice di non farlo, l’asfalto è bagnato e scivoloso per la pioggia della notte. Ma lui non l’ascolta. Vicino a scuola una macchina gli taglia la strada. Lui frena, ma perde il controllo del mezzo e scivola sull’asfalto. Batte la testa e muore all’istante.
Mia madre si dispera, e gira per giorni in casa senza farsene una ragione. Alla fine decide di liberarsi di tutta la roba appartenuta a mio fratello, convinta sia la strada giusta per ritrovare un po’ di serenità.
Fa sparire tutte le foto e da quel giorno, finché è vissuta, non ha più voluto che gli parlassi di Alex. –

***

Antonio ebbe modo di rielaborare il tutto con calma e di trarre le sue conclusioni. Certo Giovanni non avrebbe più ritrovato il bambino che era stato, né avrebbe colmato il vuoto che s’era creato dentro di lui, ma riavere l' LP gli riportava la certezza di quel tempo vissuto, dei momenti felici che c'erano stati. Gli apriva il suo pezzetto di cielo.

Comprese quanto poteva essere stato forte il suo attaccamento al fratello, il dolore che doveva aver provato, i periodi bui attraversati da quel ragazzino che perdeva, a dieci anni, la sua figura di riferimento e non trovava l’aiuto della madre. Ma provò anche pietà per lei che, chiusa nel suo dolore, non era stata capace di superare il lutto, né di rendersi conto di avere ancora un figlio che aveva bisogno di lei.   

Giovanni era cresciuto con un vuoto, quel grande vuoto dentro che cercava di colmare coltivando in silenzio il ricordo. Per paura di perderlo lo proteggeva gelosamente, ne erigeva un’icona nella mente, e mai perdeva la speranza di potersi ricongiungere un giorno con qualche oggetto appartenuto al fratello,  nell’illusione di ristabilire un contatto con lui.

I ricordi di Giovanni si erano via via impastati con i sogni, il tempo aveva segnato il passo, ma quell’oggetto era una tangibile prova che lo avrebbe riavvicinato alla memoria di Alex. Antonio almeno ci sperava. 

Tenerlo in mano, e magari riascoltarlo, sarebbe stato un po’ come sfiorare le sue dita e ritrovare qualche lontana sensazione dei momenti felici passati insieme. Per Antonio invece fu il compimento, la realizzazione di un desiderio.

Stefania Pellegrini

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