domenica 9 gennaio 2022

Gli anni dell'eskimo

 


Buona lettura e buon ascolto!

    A vent’anni quante balle si hanno per la testa. Lui con quel suo eskimo mattina e sera e feste comandate, io con i limiti che ponevo al mio pensiero. Eppure per lui non era una religione, ma solo perché di lire in tasca gliene entravano poche e quel giaccone verde, con l’interno in pelliccia sintetica bianca, gli dava sicurezza, lo aiutava, credo, ad assumere l’aria spavalda che gli leggevo sul volto e a nascondere una certa sua timidezza.

    Era un bravo ragazzo, senza troppe stranezze per la testa e mi piaceva anche per questo.

    Non dico non avesse la rivolta tra le dita, ma contro il sistema si ribellava solo sognando John Dylan e su canzoni come: “Canzone del maggio” di De André. Si poneva continue domande e portava argomentazioni che mi lasciavano confusa e incapace di controbattere.

    Ora lo so, eravamo davvero tutti coinvolti ascoltando e credendo alle “verità” della televisione e con le contestazioni si pensava di poter cambiare il mondo, ma a dirla tutta, cosa è cambiato da allora? La verità s’è trovata, e dove sta?

    Allora ero ben lontana da comprendere certe riflessioni, la parola “rivolta” non esisteva nel mio vocabolario, e criticavo le proteste che attraversavano quei tempi e la nostra gioventù. Credevo di capire tutto, invece non capivo un bel niente. Ero figlia della piccola borghesia, vivevo nella bambagia, e dal galleggiare nell’ignoranza mi sentivo protetta. Non sapevo usare le orecchie per ascoltare e la testa per pensare, e soprattutto non ero libera da preconcetti e pensieri di base. Ero la brava ragazza tutta casa e lavoro che obbediva a pie pari ai genitori, impeccabile nel suo paltò di lana pettinata grigio, con qualche lira sempre in tasca. Eppure ciò non ci impedì di cercarci e scegliere di stare insieme.

    Per dirla tutta all’inizio, lui lo trovavo un po’ antipatico, con quel suo atteggiamento da saputello indisponente, eppure allo stesso tempo c’era qualcosa nel suo modo di parlare che mi attraeva. Non ho mai capito cosa fosse, e forse, proprio perché l’amore è cieco, e sordo, finì che mi innamorai di lui.

    Ci eravamo conosciuti a una festa in casa di amici comuni, lui era il chitarrista della band che intratteneva quella sera. Alto, magro, con jeans a zampa, un po’ strappati e consumati, canottiera bianca sotto bretelle elasticizzate rosse, e capelli neri alle spalle raccolti indietro con un elastico, mi era parso da subito un po’ strano, ma credo fosse perché non rispecchiava l’idea che avevo dei canoni del bravo ragazzo. Frequentandolo, mi accorsi che non era poi tanto diverso da altri giovani di quel tempo e se c’era inquietudine nel suo animo, non lo coglievo. D’altra parte vivevo la giornata senza mai chiedermi niente, casa lavoro, lavoro casa, e credevo a tutto quello che mi si diceva, perché avevo vent’anni e “a vent’anni si è stupidi davvero”.

    Tornava al paese per il weekend, dopo quindici giorni di lavoro in fabbrica al nord e a me, che alla stazione lo guardavo scendere dal treno, pareva un principe, il mio principe, il cuore batteva a mille e un languore, come di struggimento, mi prendeva al ventre.
Un boccone al panino e già era di nuovo via e io lì a fantasticare sul prossimo incontro. Un amore, il nostro, che viveva di quei mordi e fuggi, tra ore rubate qua e là: a casa di un amico, dentro un cinema o dove si poteva, perché la macchina era un lusso che non conoscevamo.

    Le discussioni, le riunioni, gli eroi… lui a cercare di fare e di capire, a filosofare sui perché, io a seguirlo senza comprendere dove portassero. In sua assenza sapevo solo crogiolarmi sulle lunghe attese e i brevi sprazzi di luce. Mi consolavo fantasticando sulle ultime parole che ci eravamo detti prima di lasciarsi e sugli scambi di intimità delle brevi telefonate. Mi mancava o certo mi mancava, sentivo di esser priva di quella metà che se ne andava via con lui. Il tempo si fermava con la sua partenza per riprendere a correre solo con i ritorni, ma non mi pesava perché l’assenza veniva colmata dalla forza del nostro amore. Proprio perché l’amavo, sapevo di doverla accettare. Vivevo guardando avanti, giorno per giorno, sognando un futuro insieme e forse in questo trovavo il fascino di quell’amore.

    Chissà com’è che oggi mi è capitata sotto mano la foto. Non mi dispiacerebbe tornare per un po’ a quella di quei tempi là, trent’anni di meno non sono pochi, e alle domeniche, solo per noi, con l’anima in petto dell’ingenua e spensierata gioventù. Era novembre mi pare, sulla terrazza fronte mare, siamo abbracciati e sorridiamo davanti all’obbiettivo dell’amico. Non ho mai trovato il coraggio di buttarla via e credo che non sarebbe neanche giusto farlo, tenerla mi ricorda quei tempi. Ero giovane e piena di sogni, il mondo mi pareva lì, pronto per essere conquistato, e così ingenua da pensare che bastasse allungare una mano per prenderselo. Portavo l’incoscienza e la leggerezza dei semplici e facili traguardi dei vent’anni. Ancora conoscevo poco i no, le difficoltà che si incontrano per diventare adulti.

    Poi arrivarono settimane di lunghi silenzi, di parole, poche, che mi raggiungevano attraverso la cornetta fredda del telefono e un giorno lo squillo in ufficio. Un mercoledì sul tardo pomeriggio, sapeva di trovarmi sola, e mi disse che aveva conosciuto un’altra ragazza, e che tra noi era finita. Così vigliaccamente, senza trovare il coraggio di farlo guardandomi in faccia.

    Da allora, non ho più saputo niente di lui.

    Non ci furono spiegazioni e come si sa, con la lontananza per lui, fu tutto più facile.

    Riflettendo su quel tempo, ora so che la nostra relazione non poteva avere molte possibilità di successo, mancavano i pilastri portanti della complicità, gli scambi, e forse anche qualche litigio che ci avrebbe aiutato a conoscerci meglio e a crescere insieme. Il poco tempo che trascorrevamo vicini, la mia immaturità, ci impedirono di approfondire qualcosa che rimase invece sulla cresta di un’onda passeggera.

    Non ho rimpianti, ma allora fu dura voltare pagina, accettare e superare il suo pensiero, e solo il tempo e la mia giovane età poterono aiutarmi. Forse doveva andare così, oggi non festeggerei felice i miei venticinque anni di matrimonio con un uomo che mi ama e che amo con la stessa intensità della prima volta.

Stefania Pellegrini ©

Anno 2021                      
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mercoledì 22 dicembre 2021

Una vigilia di Natale da ricordare

 


Un augurio a tutti voi per un Sereno Natale e buona lettura.

 



Le vetrine dei negozi, in dicembre, sono un invito spudorato al consumismo, pensa Irene mentre si sofferma davanti a un negozio di giocattoli tra luci lampeggianti colorate e Meccano, Lego, bambole, scatole di Playmobil, solo l’imbarazzo della scelta per chi abbia denaro da spendere. Prova una punta di amarezza, fra qualche giorno sarà Natale, e suo figlio non troverà niente sotto l’albero perché in casa entrano appena i soldi per mangiare. Le piacerebbe almeno comprargli il camioncino dei pompieri, a trazione, che le chiede da un po’, ma sospira pensando che probabilmente non ci riuscirà, sono pochi i centesimi che, ogni giorno, riesce a risparmiare dalla spesa.
Ha perso il lavoro in fabbrica, dove era occupata da vent’anni, per le solite politiche aziendali. Assunta appena quindicenne, a quel lavoro aveva dedicato serietà e impegno. Amava fare la tessitrice, e si sentiva orgogliosa per ciò che riusciva a creare su un telaio con l’incrocio di semplici fili di lana colorati. Dalle sue mani erano usciti tappeti con effetti cromatici a motivi più diversi, copriletti, tovaglie, e un’infinità di cuscini che avevano rallegrato case e soddisfatto i capricci di tante donne.
“Per crisi aziendale” le avevano detto all’ufficio personale. Benché sapesse da tempo che le vendite non andassero proprio bene, soprattutto all’estero, non pensava di rientrare nella rosa delle candidate, con un bambino piccolo ancora da crescere e un marito che non trovava un posto fisso. 
Invece era successo, ormai sei mesi prima. Poi a ottobre quell’assunzione in una impresa di pulizie che le sta dando un po’ di respiro, ma il magro stipendio basta solo per andare avanti e l'unico acconto della liquidazione, ricevuto dalla fabbrica, è finito per pagare le bollette di luce e gas.  
Si chiude meglio il piumino, infila i guanti di pile, e struscia i palmi tra di loro, fa decisamente freddo. Allunga il passo decisa verso uno degli stabili dove fa le pulizie quel giorno, ben cinque piani e relativi pianerottoli. C'è l’ascensore e i condomini di solito sono discreti e rispettosi, ancora tutti in casa a quell’ora, a parte un anziano, del primo piano, che sembra debba uscire, sempre, quando sta passando il mocio bagnato sulle scale. Irene non fa mai alcuna osservazione, ma sa invece che lui s’è lamentato con l’amministratore dello stabile, adducendo il pretesto che le sette e mezzo del mattino sono un’ora inappropriata per fare le pulizie.
L’uomo, descritto come persona schiva, e pianta grane, è vedovo e vive da anni in quell’appartamento da solo.


Verso le otto, la giovane, che ha appena passato il mocio sulle ultime due rampe di scale,  sente girare la chiave di una serratura, è quasi certa sia il solito condomino che sta uscendo di casa. L’ora è la sua e ne ha la conferma quando la sua voce la raggiunge alle spalle con un borbottio che vorrebbe essere un saluto. L’anziano esce in strada, ma poco dopo sale di nuovo in casa, lei sta finendo di lavare il pavimento del pianerottolo.
Quando tira su il secchio con l’acqua, si accorge di qualcosa sul penultimo scalino delle scale, è un oggetto rettangolare marrone, ed è sicura che prima non ci fosse. Nell’avvicinarsi nota che è un portafoglio da uomo. Il pensiero corre subito all’anziano, nessun altro è uscito o entrato. Lo apre con mani titubanti per sincerarsi della proprietà e vede che contiene ben cinquecento euro. Lo richiude rapida. Si guarda attorno, c'è silenzio sulle scale, anche la portinaia è chiusa nel suo gabbiotto. Nessuno ha visto, nessuno può sapere, potrebbe metterselo in tasca e far finta che niente sia accaduto. L’anziano non si è ancora accorto di averlo smarrito e quando lo farà non ricorderà certo di averlo perso proprio lì. 
Quante cose potrebbe fare con quei soldi: suo figlio avrebbe il suo camioncino e una scatola di costruzioni Lego, il pranzo di Natale ricco e festoso, una sciarpa di lana rossa da comprare per lei e un piccolo regalo per il marito. Sono solo pensieri dell’istante, ma non le impediscono di provare un senso di colpa e di disagio, seppure i suoi piedi siano già sugli ultimi scalini davanti alla porta, dove sa che suonerà per restituire il portafoglio.
La sorpresa dell’anziano è immediata e spontanea: è imbarazzato, impacciato e non trova parole da dire. La donna proprio quella che, ha spesso criticato con parole dure e, si è lamentato con l’amministratore, è davanti a lui e gli sta restituendo il portafoglio. Non la invita ad entrare, ma resta sullo stipite della porta come impalato, con aria goffa. Alla fine, si riscuote e con il solito suo borbottio, pronuncia un grazie e richiudere rapido. Le buone maniere, ormai, non abitano più dentro di lui, abituato da anni a vivere da solo ma, dopo un attimo, è già pentito. Va alla porta, la riapre, troppo tardi, la giovane se n’è andata.
A mente lucida e nel silenzio della sua casa ha modo di riflettere sull’accaduto e di realizzare il gesto in tutta la sua importanza. Quella giovane donna merita più di un semplice grazie. Poi ricorda alcuni discorsi, qualche tempo addietro, fatti dalla portinaia. Prende il cellulare e chiama un numero telefonico memorizzato, annota su un foglio un altro numero e poco dopo lo compone, in breve riesce ad avere qualche notizia sulla donna.

Il giorno seguente si alza di primo mattino, al sorgere della luce, e nei suoi soliti rituali si sofferma a sorseggiare il caffè, seduto sulla sedia del soggiorno. Forse perché antivigilia di Natale, è preso dal desiderio di fermare il tempo, di poterlo riportare a quando quel periodo era accompagnato da piacevoli chiacchiere mattutine e l’armonia era in ogni oggetto che toccava. Il ricordo lo attraversa insieme a un misto di nostalgia, ma l’aroma caldo, che dalla tazzina sale alle narici, si impadronisce di lui con una percezione di piacevolezza. Vorrebbe prolungare quell’attimo e si sofferma con la tazzina di ceramica tra le due mani prima di avvicinare il liquido caldo alla bocca.
Chiude gli occhi e ripassa mentalmente alcuni impegni del giorno: una sosta dal suo negoziante di fiducia per ordinare un cesto natalizio e un’altra al negozio di giocattoli dietro l’angolo, poi una telefonata al figlio che non sente da una settimana.
In quei programmi, forse perché sono più numerosi del solito, sembra ritrovare un’armonia persa e tutta la solitudine, e la malinconia, di quei giorni che precedono le feste, migrano altrove. Vedrà suo figlio con la famiglia solo per il pranzo del 25, dopo mesi in cui l’ha sentito solo qualche volta sul cellulare o tramite WhatsApp, ma il pensiero ora non gli pesa più. D’improvviso gli tornano in mente Natali lontani quando con sua moglie preparava l’albero e il pranzo di Natale, e si perde in quei ricordi, la rivede, la sente accanto. Un brivido gli attraversa la schiena. 
Posa la tazzina sul tavolo, s’avvicina a un cassetto della credenza, e ne tira fuori un album fotografico. Mentre gira le pagine e sfiora con dolcezza le foto è come se aprisse delle porte chiuse da molto tempo e liberasse profumi nascosti. Nell'aria sente salire aromi di lavanda, di muschio e di resina d’abete che non ricordava più. È preso da un pensiero lontano, e gli torna in mente il vecchio albero che preparavano insieme. Non ha mai avuto il coraggio di liberarsene, sono anni che non lo prende dal ripostiglio, ma la presenza della moglie è ancora viva in lui. Decide di tirarlo fuori e di addobbarlo con palline e fili argentati come facevano una volta. È un inizio, sa che può fare di meglio, ma per intanto si accontenta. La solitudine sta già voltando l'angolo, lo sente. Lo sente dentro di lui e intorno, nell'aria della casa che respira diversa.  

***

La Vigilia di Natale, Irene ha il giorno di riposo e sta giocando con il suo bimbo di sette anni a “Forza quattro”, quando sente lo squillo del campanello. Suo marito è appena uscito e sul momento pensa sia lui alla porta, forse ha dimenticato le chiavi della macchina. Ma quando apre si trova davanti un fattorino con un grosso pacco. La sorpresa è così grande che non s’accorge di chiedergli più volte se sia sicuro della consegna e di controllare l’indirizzo sul cartone, come a sincerarsi sia quello giusto.
Suo figlio è eccitato, salta, vuole aprirlo subito. Irene invece avrebbe bisogno di tempo, per fare mente locale, anche solo per capire chi può aver avuto il pensiero e chi potrà ringraziare. Si siede frastornata su una sedia e guarda il pacco, ma il ragazzino insiste e comincia a tirare un lembo del cartone. Allora si alza e lo aiuta ad aprirlo.
Dentro trovano un grosso cesto pieno di prodotti alimentari, una busta chiusa con duecento euro e un biglietto da visita di un grande magazzino di prodotti tessili, sopra il quale una grafia incerta e nervosa ha riportato: “Chiamate questo numero, cercano personale da assumere.” 
Di lato, c'è un pacchetto, incartato con carta natalizia, indirizzato al figlio. 
Il tutto è accompagnato da un foglietto ripiegato dove è stato scritto: “Da parte di un Babbo Natale sperduto, che ha ritrovato il piacere del Natale. Serene feste a voi. Grazie!!”
Il bambino è al settimo cielo, va avanti, indietro per la stanza. Irene invece, superata la sorpresa, continua a guardare tutti quei doni e a chiedersi chi sia quel Babbo Natale sperduto. 

Stefania Pellegrini ©

Dicembre 2021

DIRITTI RISERVATI