lunedì 3 febbraio 2025

Sulla spinta del vento caldo - Nuovo racconto

 


BUONA LETTURA

La primavera quell’anno pareva, al ventotto di febbraio, aver già avanzato i suoi primi passi. Nel piccolo paesino ai piedi delle montagne era arrivata una mattina, all’improvviso, con il vento caldo. Soffiò tutto il giorno e dopo tanto freddo e neve il cambiamento fu subito percepibile nell’aria.

Non era finita, si sapeva bene, e c’era da aspettarsi che il freddo non avrebbe mollato così la sua presa, non sarebbe stato da lui. La cosa fu comunque accolta dalla gente con ottimismo e la temperatura mite portò qualcuno all'aria aperta per controllare i danni lasciati dal lungo inverno. Non era ancora tempo di sarchiare il terreno dell’orto, la neve disciolta e il gelo accumulato nelle notti fredde l’aveva indurito, anche in giardino, nonostante le testoline delle prime margherite spuntate tra l’erba acciaccata dalla neve,  tutto ancora pareva riposare.

Lui arrivò in paese sulla spinta di quel vento, in tarda mattinata dalla città. Appena sceso dall'autobus si contò i soldi rimasti nelle tasche e storse la bocca: erano pochi. Troppi pochi spiccioli per comprarsi qualcosa da mangiare o sperare di andare avanti. Non sarebbe stata la prima volta che saltava il pasto, a quello ormai era abituato, ma era stanco di elemosinare in giro anche solo un piccolo tozzo di pane. Quella mattina però si sentiva stranamente ottimista, qualcosa stava cambiando. Che fosse la primavera in arrivo?

Il lavoro di giardiniere, anche se per pochi mesi, sarebbe stato suo, sentiva che sarebbe stato così. Sperava tanto andasse bene perché era stufo di dormire sempre in un luogo diverso e fare quel tipo di vita. Voleva un lavoro che lo facesse sentire utile, un lavoro dignitoso, un lavoro vero, ma sapeva bene che la volontà non basta contro la diffidenza e il pregiudizio.

Ne aveva viste e passate tante per quella pelle scura, lontano dalla sua terra. Era difficile far capire alle persone che aveva sani principi e sempre buone intenzioni. Soprattutto non era uno sfaticato e se chiedeva qualche centesimo fuori da un supermercato non era perché non avesse voglia di lavorare. Era semplicemente che lui un lavoro non lo trovava, finiva sempre per prenderselo qualcun altro.

Poi c'era stato un incontro, qualche giorno prima, fuori dal supermercato Conad, con un'anima caritatevole. Un uomo anziano che, invece di dargli la solita moneta, si era soffermato a parlare con lui e gli aveva detto di quel lavoro. Farid quasi non aveva creduto alle sue orecchie. Prima di giungere in quella città si era già occupato di piante, gli piaceva prendersene cura, stare fuori a contatto con la natura e far fatica non lo spaventava.

Il suo abbigliamento, consistente in un paio di pantaloni leggeri e una giacca di due taglie più grande, rimediata in un centro Caritas, non era dei più adatti al clima rigido di quella regione, e la gente spesso lo guardava con curiosità e diffidenza. Ormai si era abituato ai loro sguardi e non faceva più caso alla distanza che mettevano tra lui e la loro persona. Quel giorno, però, sperò ardentemente che colui o colei, a cui doveva rivolgersi, non si facesse influenzare dalle apparenze o fosse assalito/a dai soliti pregiudizi.

Il responsabile della Cooperativa, a cui si presentò, era un giovane all'incirca della sua età. Per un attimo questo lo portò a illudersi che potesse esserci empatia tra loro e quindi fosse più facile fargli comprendere quanto fosse importante avere quel lavoro. L'uomo però lo liquidò in fretta affermando di essere dispiaciuto ma di aver appena assegnato il lavoro a un'altra persona.

Magari le cose erano davvero andate in quel modo, ed era stato solo questione di tempismo, ma quel pensiero non lo confortò e si sentì comunque ancora una volta rifiutato. Era appena ventenne, aveva tutta una vita davanti, ma quale, a quali condizioni, se ogni volta finiva con un nulla di fatto? Sarebbe mai arriva la sua occasione, ne avrebbe mai avuta una?

        Uscì dall'ufficio con l'animo a terra, e la ventata di aria calda che lo investì non gli fece tornare il buon umore, si sentì pervadere da un senso di inutilità. Aveva sperato in quel lavoro, aveva sognato, fantasticato di poter contare su un nuovo inizio, su un futuro più sereno, invece restava un clandestino. Aveva osato sperare troppo, pensò, non c'erano possibilità di riscatto per uno come lui. Era un diverso, era un nero, la gente aveva paura di persone come lui.

     Dopo un anno, in Italia per essere sfuggito alle guerriglie nel suo paese che depredavano e uccidevano, aver affrontato il lungo viaggio nel deserto e poi in mare... le violenze, la fame, le torture, le vessazioni in Libia, dopo aver superato tutto questo, si sentiva ancora in viaggio. Alla ricerca di una terra, di una sua dimensione, ancora esposto ai rischi, alle tentazioni, di chi è senza un lavoro. Era un irregolare. Non aveva diritto a sognare uno come lui, poteva solo accontentarsi degli scarti. Dopo tutto doveva considerarsi comunque fortunato: era ancora vivo.

      Mentre camminava, seguendo il corso dei suoi pensieri, si accorse di aver lasciato il centro per imboccare una strada traversa e di essere finito vicino a una scuola. Non era l'ora della ricreazione e i bambini erano ancora in classe, ma in una villetta poco distante notò una vecchietta che stava cercando di tenere aperto un sacco nero dove avrebbe voluto gettare le foglie accartocciate e umide cadute in giardino. Ma era una lotta impari tra il vento che non accennava a essere ragionevole e la donna che si affannava a raccogliere qualcosa che in un attimo vedeva di nuovo dispersi attorno.

     Alla vista di Farid l'anziana si soffermò per riprendere fiato e gli sorrise. Non capitava spesso che qualcuno fosse gentile con lui e ne fu piacevolmente sorpreso. Notò che la donna zoppicava ed era gobba. Francamente non si spiegava come riuscisse a stare in piedi. Non sembrava molto sicura nei movimenti, a tratti le mani parevano accennare un tremito. Stava facendo qualcosa che era al di sopra delle sue possibilità, così si offerse di aiutarla. Adele guardò il giovane in faccia, e gli sembrò di vedere suo nipote, uno sguardo quasi familiare, forse per l'età, per gli occhi pieni di vivacità e aprì il cancello per farlo entrare.

    L'offerta di aiuto del giovane capitava proprio nel momento giusto, faceva fatica ad ammetterlo, ma era stanca e se avesse avuto una sedia vicino si sarebbe volentieri riposata un po'. Quel vento insistente le aveva tolto il fiato. Eppure non aveva saputo resistere alla nostalgia per l'aria mite della bella giornata primaverile dopo i diversi mesi trascorsi in casa per il freddo. Respirarla, sentirla entrare nei polmoni, la faceva stare bene. Poi aveva visto tutte quelle foglie che roteavano nel cortile, e aveva pensato di fare uno po' di pulizia, ma non aveva tenuto conto dei suoi anni e dell'irruenza incontrollabile del vento.

    Il giovane l'aiutò con il sacco e quando ebbe finito lo ripose sotto una tettoia al sicuro, poi si offerse per aiutarla a fare altro. Adele mentre lo osservava al lavoro, pensò alla comodità di avere due braccia forti a cui ricorrere per una mano. Farid era alto e appariva robusto, lei solo una vecchia fragile, e malata. Il figlio e il nipote viaggiavano spesso per lavoro e non osava coinvolgerli, chiedere quell'aiuto di cui, francamente in quella casa tutta sola dopo la morte del marito, aveva un gran bisogno.

     Aspettò che Farid finisse di mettere a posto poi lo invitò in casa a bere una tazza di caffè. Davanti al liquido fumante non riuscì a trattenersi da fargli domande sulla sua vita, e sul paese da cui proveniva. Adele come ogni vecchietta era curiosa e assetata di storie e, quel giovane che arrivava da lontano, e parlava già abbastanza bene l'italiano, sembra averne una tutta per lei.

    La sua era semplice curiosità, niente altro, neanche per un momento l'attraversò l'idea di diffidare di lui, né di dare peso alla sua pelle nera. Qualche giorno dopo, quando una vicina si permise di suggerirle di fare attenzione, che non c'era da fidarsi di uno straniero,  soprattutto con la pelle nera, si scoprì  a dire le stesse cose.

    Farid era semplicemente un giovane, precisò, un giovane come tanti, come era stato suo figlio e ora suo nipote. Un giovane pieno di forza e di vita, quella che lei a giornate sentiva sfuggirle dentro. E la liquidò aggiungendo che non aveva niente da temere da lui, piuttosto erano gli altri ad avere qualche problema. Tutti hanno diritto a una seconda occasione e non deve essere il colore della pelle a condizionarne il diritto.

    Nessuno vide più Farid davanti a un supermercato. Lavorò per Adele che lo retribuì per diversi mesi e anche dopo passò spesso a trovarla per farle un po' di compagnia. Con il tempo la gente del paese imparò a non diffidare di lui, a essere gentile e a salutarlo. Qualcuno lo chiamava per fargli fare dei lavoretti, qualcun altro si soffermava a parlare e pronunciava amichevolmente il suo nome. Nessuno più cercò di evitarlo. Un anno dopo si liberò un posto alla Cooperativa e fu assunto stabilmente  come giardiniere.

    Tutto merito del vento caldo di quel lontano giorno che oltre alla primavera portò una nuova vita a Farid.

Stefania Pellegrini ©

Anno 2025 - Inedito


giovedì 16 gennaio 2025

Notturno di Chopin - racconto

 


Oggi vi ripropongo un racconto, così come appare sulla mia ultima raccolta: QUELL'ESTATE DEL 1984 e altri racconti. 

BUONA LETTURA


“… Non rinnegare i tuoi sogni / ma tienili con te ogni giorno / vedrai la vita / con sfumature d’infinito…/ Dalla raccolta “Isole” – Stefania Pellegrini

Notturno di Chopin


Quando ti accadono certi fatti, come è successo a me con le visioni degli ultimi tempi, credo sia naturale cominciare a dubitare della persona equilibrata, che credi di essere, e ogni certezza nella tua testa vada a farsi fottere. Sfido chiunque a controllare lo stato di agitazione a cui si va incontro: con ogni cellula del corpo in fibrillazione… pensieri, emozioni, che fan girare la testa… e vorresti fermare quella giostra in movimento che gira… gira senza tregua.

Quando poi, tutto è passato, provi a non pensarci. Cerchi di dedicarti ad altro, a una qualsiasi cosa che possa scacciare lo stato confusionale creatosi nella mente.

Provi… riprovi, ma il fatto ormai è lì, e pure il tarlo che si è insinuato nella mente.

Ieri è accaduto mentre sto uscendo di casa per andare all’Università, il mercoledì ho lezione di anatomia.

Mi vedo ferma su un marciapiede davanti a una strada e a un negozio senza insegna. I capelli corti, sono lunghi fino alle spalle, indosso un impermeabile con cintura in vita. Sono certa di essere ben sveglia eppure non sto vivendo il momento. Lo sto subendo in balia di qualcosa di incontrollabile. L’immagine è del tutto singolare.

Non ricordo di averla mai vissuta, né riconosco il luogo, oltretutto il vedermi immobile e di schiena non mi dà alcuna certezza di essere io quella persona.

Provo, come altre volte, a scrollarmi le sensazioni di dosso e allungo il passo decisa a prendere la metro delle 8:30. L’aria fresca, quasi pungente del mattino, mi fa riacquistare un po’ di lucidità. Giunta in stazione, un odore fastidioso di officina, un’aria pesante riempie la banchina, per fortuna il treno sopraggiunge subito dopo. Salgo sul vagone affollato di gente in quelle prime ore del mattino, ma devo rassegnarmi a stare in piedi appoggiata a una maniglia e… mi reimmergo nei pensieri.

In facoltà, prima di entrare in aula per la lezione, faccio una sosta alla macchinetta delle bevande per prendermi un caffè. Sono da sola e sto muovendo il cucchiaino nel bicchierino di plastica, la bevanda scotta e aspetto si raffreddi, quando mi raggiunge un odore di arance amare, poi un aroma dolce di tabacco e subito dopo la solita visione. In mezzo sento il suono di un clacson e la sirena di un’ambulanza. Poi i rumori si attenuano lasciando spazio a delle note musicali. Le riconosco subito, sono quelle del Notturno di Chopin. Il mio cuore prende a battere a mille… palpitazioni dal petto risalgono, le sento fino in gola.

Mi guardo attorno stranita, anche i suoni sono frutto della mia immaginazione? La stanzetta è silenziosa e vuota… due giovani chiacchierano allegramente in corridoio… Oddio… È tutto accaduto all’interno della mia testa.

Rovescio per terra qualche goccia di caffè. Le gambe si fanno molli e allungo una mano per cercare un sostegno. Ma cavolo, come si può vivere così?

***

«Si tratta di allucinazioni? Sto diventando pazza? Mi dica.»

«Lei è una ragazza carina e ha poco più di venti anni, giusto?»

La dottoressa sembra studiarmi. Sono a disagio e ricambio lo sguardo soffermandomi sui tratti del suo volto roseo, forse cinquantenne, che non tradisce alcuna emozione.

Mi viene caldo, apro la cerniera del giubbetto di pelle e distendo le gambe che avevo accavallato.

Scorro lo sguardo nella stanza e mi aggiusto meglio in poltrona. Le mura sono bianche e c’è una grande finestra, a lato del piccolo scrittoio in legno, che dà luminosità all’ambiente. Oggetti e alcune piante verdi, due orchidee con fiori rosa, sono disposti con cura. Mi piace ciò che vedo, l’ambiente è accogliente e cerco di calmare l’agitazione che mi ha assalita entrando.

«Mi ha detto di aver perso suo padre circa un anno e mezzo fa. Da allora è diventata taciturna e non ha amici, né un fidanzato. Cosa può raccontarmi di lui?»

«Dottoressa, è morto d'infarto, una tragedia improvvisa a cui non ero preparata» deglutisco la saliva e mi accorgo di fare fatica a parlarne.

«Avevamo un rapporto speciale e mi sono chiusa in casa per una settimana. Un suono, o un rumore diverso, e correvo alla porta. Ma era l’anno della maturità e, per non rischiare di perderlo, ho dovuto riprendere le lezioni.

Era mio padre a guidare tutte le mie scelte, a cominciare dalle lezioni di pianoforte. Mi piaceva molto suonarlo, sa, ma era diventato troppo impegnativo e in quarta ginnasio lui mi fa smettere.»

Mentre ricordo risento la sua voce decisa, perentoria che non ammette repliche, quella dolce della mamma che cerca di dissuaderlo… le mie promesse… le mie insistenze, è tutto così reale che stranamente ho una vertigine. Per fortuna solo quella e mi ricompongo subito.

«Non l'ha più suonato, neanche a casa? Cosa provava quando lo faceva?»

«Mia madre avrebbe voluto. Lei diceva sempre che la musica è la voce con cui si può far parlare l’anima e le era dispiaciuto molto quando non aveva più sentito quei suoni in casa. Ma sa, la scuola mi impegnava parecchio e per mio padre la musica era una distrazione che non potevo permettermi.»

La dottoressa mi ascolta senza interrompermi, appare calma e mi incoraggia sorridendomi. Mi soffermo a pensare, ma le parole fuggono dalla mente prima di essere formulate come fossero migliaia di bolle d’aria. Sono confusa, frastornata, troppe emozioni e, soprattutto, troppi ricordi dolorosi.

«Sentivo che aveva grandi aspettative, forse perché ero la sua unica figlia, ma non dicevo nulla. Il classico… la laurea in medicina… Voleva mi specializzarmi in pediatria, mi pare, il perché però non l’ho mai capito.

Sa, certi giorni, andare a lezione in facoltà mi crea una sorta di inquietudine e agitazione. Credo sia ansia, ma ancora non ho capito bene a cosa sia legata.

Qualche volta penso derivi dall’indirizzo di studi che ho scelto, ma anche fosse… non avrei il coraggio di cambiare facoltà. Poi che potrei fare?

Era mio padre a prendere le decisioni, e io lasciavo fare. Fin da piccola era stato così e adesso che non c’è più sono spesso indecisa su ciò che dovrei o non dovrei fare. Forse mi piaceva anche, in fin dei conti voleva solo il mio bene.

Ho divagato, mi scusi, mi chiedeva della musica, giusto?

Ecco, avevo trovato il modo di esternare ciò che avevo dentro. Cosa esiste di più bello della musica per rompere il silenzio, per tenere lontana la solitudine e rappresentare il sentimento del movimento? Muovevo le dita, e su - giù, avanti - indietro, migliaia di scale solo per me. Un fluido in divenire mi portava in un altro tempo… un’altra dimensione.

Come se volassi.

Altro non c'era di così trascinante. Trovavo facile lasciarmi coinvolgere da quel linguaggio e dalle emozioni che nascevano dentro e mi scaldavano il cuore. La musica era il mio rifugio, ciò che avrei voluto dire, ma non sapevo come esprimerlo, mi faceva sentire diversa… direi unica.»

La dottoressa s’è fatta più attenta, non si trastulla più con la penna che tiene in mano e mi sento incoraggiata a proseguire.

«Era questo, dottoressa, questione di pelle… sì, perché quelle note arrivavano a sfiorarmi, accarezzarmi con dolcezza. Un languore in pancia sentivo e brividi lungo la schiena. Non so se sono riuscita a darle un'idea.»

«Certo. Mi parli ora dell’ultima visione.»

La sua voce è calda, ma controllata e ciò mi rassicura. Sono giunta all’ultimo racconto, la tensione è diminuita e mi sento meglio, più leggera.

«Ecco, sto rientrando a casa e sono sulla metro, seduta. Il vagone è affollato come ogni sera. C’è una voce, è di una bimba che parla con il padre. Ma non capisco cosa si dicono… poi la vista mi si offusca. Tutti i suoni… il vociare dei viaggiatori… lo sferragliare della metro sui binari… lo squillo di un cellulare, sembrano allontanarsi, fino a farsi ovattati, deboli.

Chiudo gli occhi e mi raggiunge un aroma dolciastro, leggero. L’ho già sentito…

Lo riconosco. È di tabacco da pipa, come quello che usava papà. In una sorta di estraniamento, come fossi entrata in un sogno, lo vedo: è in piedi davanti a un negozio di musica, dalla parte opposta della strada.

Mi sorride, e pare dirmi qualcosa.

M’incammino allora, voglio raggiungerlo. Provo ad attraversare, ma a ogni passo la strada sembra allontanarsi, sempre un po’ di più, fino a scomparire. Riprendo coscienza di me. Riapro gli occhi. Mi tocco. Le mie mani... le dita… provo ad aprirle, a chiuderle… funziona. Sono viva! Il soffitto della vettura, però, ondeggia e per un po’ non riesco a realizzare dove mi trovo.

Quanto tempo è passato? Forse solo pochi minuti… Poi ricordo… Ho visto mio padre… era così reale la sua alta figura, il volto sorridente… e mi metto a cercarlo con lo sguardo tra i volti che mi stanno attorno. Ma lui mi ha lasciato di nuovo.

L’esperienza mi porta un senso di stanchezza, mi sento fiacca. Fuori dalla metropolitana, l'aria della sera di fine ottobre è fresca sul viso, recupero un po’ di energia e tiro su la lampo e il colletto della giacca di pelle. In breve mi ritrovo a salire le scale di casa a due a due, saluto con un sorriso la vicina ficcanaso affacciatasi sul pianerottolo, ed entro nell’appartamento.

È allora, quando sono nella mia camera, che mi viene da pensare, da riflettere, sui miei limiti, dottoressa e capisco… Capisco che ci sono situazioni che si possono combattere e risolvere da soli, altre, invece, che necessitano di una richiesta di aiuto, altrimenti è un continuo scontrarsi con i mulini a vento. Ed è per questo che sono qui oggi.»

La dottoressa pare riflettere su quello che ho appena raccontato, e approvare la mia riflessione. La guardo con più attenzione e solo ora noto i suoi capelli corti, bianchi e ricci, i piccoli occhiali di metallo rotondi che toglie dal viso e posa sullo scrittoio, la voce misurata e bassa, rassicurante.

«Non ha mai pensato di avere qualcosa che la tormenta, e chiede di essere portata alla luce?»

«Non so.»

La guardo confusa, non credo di aver capito cosa intenda.

«Vuol dire che le ripetute visioni sono per ricordarmi di pensare a mio padre? Ma non ce n’è bisogno, a lui penso ogni giorno. Ricordo spesso episodi piacevoli vissuti con lui, e provo a ritrovare parte dello stato di benessere e di gioia di bimba… mi vedo nel parco sul seggiolino della sua bicicletta, sulla neve con lo slittino… in salotto seduti sul divano a conversare.

Però devo ammettere… non sono più in grado di gestire le mie emozioni. Le tengo chiuse dentro quasi a proteggerle. Fa troppo male, mi creda, affrontare il dolore e mi impongo di ignorarlo, sperando se ne vada da solo.»

«Cara ragazza, ha mai provato a fare qualcosa che le dia piacere? Al di là di quello che direbbe suo padre? Mi dia retta, torni ad ascoltarsi, così come faceva quando suonava, e dia vita ai suoi desideri.»

Ascoltarmi… non lo faccio da così tanto tempo, forse non l’ho mai fatto veramente. Da che parte comincio?

***

Esco dallo studio, ormai è sceso il buio, ma non ho voglia di rientrare a casa. Devo prendere tempo, riflettere e fare chiarezza nella confusione che ho in testa.

Mi metto a camminare lungo i portici delle strade del centro, soffermandomi davanti a qualche vetrina, la gente mi passa accanto, qualcuno mi urta. Sembra che tutti abbiano fretta di tornare a casa. L’aria è piacevole, e mi scopro improvvisamente attratta da ciò che mi circonda.

Un paio di scarpe colpiscono la mia immaginazione: sono in vernice nera, di linea semplice, mi piacciono, ma hanno i tacchi a spillo. Guardo ciò che indosso abitualmente: gli stivaletti alla caviglia, bassi, la dolcevita di lana gialla, i jeans in stretch neri, e penso che forse non sarebbe male se mi fermassi ad acquistare qualcosa di diverso, se osassi un po’ di più. Magari comprandomi un abito a tubino in maglia, come quello che ho appena visto nel negozio a fianco, poi magari un profumo e un fondo tinta. Fino a ora mi sono truccata sempre pochissimo, e non metto profumo. Ma adesso sento qualcosa dentro che mi dice di provare. Se non lo faccio come posso capire se sia la cosa giusta, quella che mi può far stare bene? Devo sentirmi libera di dare ascolto ai miei desideri.

«Con il colore dei suoi occhi, a pagliuzze verdi e marrone, il verde salvia andrà benissimo» mi dice, sorridendo, la commessa della profumeria, quando le chiedo un consiglio. Non ho mai usato l’ombretto, ma vada anche per quello.

La dottoressa mi ha rassicurato, e mi sento in vena di fare pazzie.

«Forse ci vorrà ancora qualche incontro perché le visioni scompaiono del tutto, ma come sono arrivate se ne andranno.»

«Dare tempo al tempo.» Così mi ha suggerito e io non ho fretta, mi sento positiva.

A casa, mia madre non c’è, l’appartamento è avvolto nel silenzio. Meglio, ho ancora bisogno di metabolizzare la folla di pensieri che mi passano per la testa.

Il pianoforte, il mio fedele amico è ancora lì. Stranamente, questa sera pare guardarmi, invitarmi a sedermi accanto a lui. Mi soffermo a osservarlo e sento una languida nostalgia salirmi in petto. Mi sei mancato tanto, gli dico, sfiorandolo con una mano.

Porto gli acquisti in camera da letto e torno rapida in salotto. Quando mia madre rincasa, sto suonando le prime note del Notturno di Chopin. Non mi accorgo della sua presenza alle spalle, così dolcemente coinvolta e persa nel suono di quelle note.

Dopo le prime incertezze, le mie dita riacquistano la naturalezza e la scioltezza di una volta. Le sento, le vedo muoversi: su - giù, avanti - indietro… leggere sui tasti neri, bianchi… cavalcano una melodia che mi trascina lontano. Tutto attorno a me scompare, s’annulla in quel suono che muove tra le righe dello spartito.

Il tempo si allenta come una trama che perda consistenza. Entro in un sogno fatto d’armonia e di piacere. Incontro pure mio padre che pare incoraggiarmi, come quando bambina muovevo i primi passi, e mi sento serena, come non sono da tanto tempo.

Non sono più io che suono, qualcun altro mi guida all’abbandono, ed è un trasporto ristoratore. La contrattura alle spalle, che sentivo poco prima, scompare, tutto il corpo si lascia andare, e pare non avere più peso. I pensieri s’arrestano.

È la musica a parlare per me, è tornata a esprimere ciò che non sarei mai capace di fare con le parole.

Ed eccola la poesia, materializzarsi, concretizzarsi in qualcosa di assoluto. Cosa può esserci di più affascinante e liberatorio di questa poesia dell’anima?

Stefania Pellegrini



Questa pubblicazione è il risultato di un 1° premio ricevuto per un racconto con cui avevo partecipato nel 2023 al IX Premio letterario e d'arte dell'Associazione Nuovi Occhi Sul Mugello.