Può
darsi che io non arrivi a un certo giorno, può darsi... sia finita. La luna
illumina il pozzo, in fondo riflette il niente. Può darsi che mi risveglierò e
scoprirò che è stato solo un sogno, un brutto sogno... Può darsi. Ma se così
non fosse? Sarebbe la fine.
Le parole, in una grafia minuta, quasi
infantile, della prima pagina di un quadernetto a righe, si interrompono
bruscamente. Sul punto finale una sbavatura di inchiostro. Anita si sofferma su
ogni singola frase, perplessa. Sfoglia... oltre solo fogli bianchi e pagine
strappate. Le piacerebbe sapere cosa contenevano, ma ormai non potrà più
scoprirlo.
Era in mezzo
all'erba, nei pressi di due abeti.
Lo gira tra
le mani, non ci sono nomi. La copertina rigida, semplice, è di un celeste
pallido, marezzato, un elastico nero, sottile, tiene insieme le pagine.
Ripete: “Può
darsi che io non arrivi a un certo giorno”, se lo ripete più volte, la
frase non le suona nuova... Ma sì! È il primo verso di una poesia di Nazim
Hikmet: “Può darsi che io non arrivi a un certo giorno, può darsi che
penzolando a un capo del ponte lascerò cadere la mia ombra sull'asfalto...” Recita
mentalmente: “... se sarò vivo... suonerò il violino e canterò una
canzone...”
Deve entrare
in classe, penserà dopo al significato di quelle frasi. Il permesso autorizzato
le scade alle dieci. Lontana da sguardi curiosi, infila rapida il quaderno
nella tasca dello zaino e corre in Istituto. A lezioni concluse ha dimenticato
completamente il ritrovamento, ma mentre esce dalla porta a vetri vede una
giovane, alta e magra, aggirarsi nel luogo dove tre ore prima ha rinvenuto il
quaderno.
Si sofferma
sotto la tettoia ad osservare la scena. La giovane rovista tra l'erba, sembra
agitata. “E adesso, che faccio? Magari sta cercando quello che ho preso
io.” Fa un lungo respiro e va verso di
lei. Da vicino tutto è più semplice, e naturale, anche dire:
“Ciao” –
estrarre il quaderno dallo zaino e aggiungere con un sorriso: “Stai cercando
questo?” - Mentre due grandi occhi verdi
acquosi, profondi come il mare si fissano su di lei con sguardo imbarazzato.
“Dove l'hai
trovato?... Lo stavo cercando.” La proprietaria di quegli occhi afferra rapida
il quaderno, come volesse strapparglielo dalle mani, e lo infila nella sacca a
tracolla.
“Era qui
nell'erba, l'ho visto per puro caso e ho pensato di prenderlo per evitare che
andasse perduto.” Risponde sorpresa.
“Può
darsi sia finita. È finita...” Un dubbio come un punto grigio che rompe
l'armonia del foglio, in questo caso della mente, come una folgorazione, le si
manifesta improvviso.
“Io mi chiamo Anita e tu?”
L'altra
cincischia con la sacca di stoffa, se l'aggiusta, resta in silenzio. Qualche
minuto poi risponde: “Io sono Angela.” Per proseguire subito dopo: “Bene. Ti
ringrazio. Sei stata gentile. Ma ora devo andare.”
“Aspetta!”
Anita la trattiene per un braccio e rimane colpita da quella sua carnagione
chiara e pallida su un viso ricoperto di lentiggini. Se l'avesse già visto se
lo ricorderebbe, così le chiede: - “Anche tu frequenti l'Istituto?”
“No.”
Risponde l'altra decisa mentre cerca di allungare il passo per immettersi in
via della stazione.
“Vai verso
il centro? Io abito dalle parti del Municipio, ti accompagno.” – replica Anita
–
Angela non
ha nessuna voglia di fare conversazione, ma non protesta. Gira a destra, risale
verso il borgo e si lascia affiancare sul marciapiede, cercando di ignorare
quella presenza che le sta procurando disagio ed una insolita sudorazione.
Si sofferma
per togliersi la felpa, che indossa sopra i jeans e la maglietta con maniche
corte, e la butta senza cura nella sacca. Poi riprende a camminare in silenzio.
La giornata
è calda benché siano solo gli ultimi giorni di aprile. Intorno si respira una piacevole
aria vivace, quasi estiva e il cielo riflette un blu privo di nuvole.
La ragazza
pare non gradire conversare benché Anita cerchi di metterla a suo agio parlando
di sé, della sua passione per i gialli, di quello che vorrebbe fare dopo il
quinto anno...
Camminano
affiancate sul lato sinistro della strada.
Incrociano un anziano con un bastone che zoppica, e imboccano il senso
unico di via Emile Chanoux. Poco più avanti, un motorino, con a bordo due
ragazzi, spunta da dietro un’auto e le supera rombando. Sfreccia via veloce ma
entrambe sentono chiaramente gridare nella loro direzione: “Anita stai alla
larga da quella. Porta iella.” Angela si fa rossa come un pomodoro, accelera il
passo e prende a correre, mentre lei scuote la testa pensando ai soliti
stupidi, che han voglia di scherzare.
Vorrebbe
fermarla, parlarle, raccontarle, che anche a lei è capitato che qualcuno la
chiamasse snob o con altri appellativi, perché non dava loro confidenza, e in
classe le nascondessero gli oggetti, ma non è facile stare dietro a quelle sue
lunghe gambe. Anita che è grassottella, e decisamente più piccola, ha il
fiatone.
Supera il
negozio fotografico, il panificio, sente il cuore in gola. Nei pressi dell’ufficio postale riesce a
raggiungerla e la ferma afferrandola per un braccio, mentre una donna anziana
che le ha appena superate si gira a guardarle.
“Angela,
aspetta! Guardami! Non avrai davvero creduto a quei due? Sono dei cretini. Non
hanno la misura dei loro scherzi.”
“Ma
che fai piangi?” Cerca nella tasca dei pantaloni ed estrae un fazzoletto.
“Dai prendi,
asciugati, non meritano le tue lacrime.”
“Tu parli, parli. Ma che vuoi sapere?”
Risponde Angela risentita.
“Cioè? Ti
hanno già importunata?”
Nessuna
risposta. Al ché propone:
“Dai, più
avanti c'è un bar. Entriamo e ci sediamo un attimo.”
Il locale è
abbastanza tranquillo, nonostante l’ora del pranzo, dentro c'è solo un
vecchietto che consuma il suo bicchiere di bianco e parla con il barista.
Cercano un tavolino appartato e ordinano una coca – cola.
Anita
vorrebbe tranquillizzarla, dirle che si può fidare, ma sceglie di restare in
silenzio. Prova però ad abbracciarla ed Angela, come una marionetta, non
reagisce. I suoi occhi, velati di lacrime, fissano un punto lontano.
Un
atteggiamento che le fa tornare in mente: “E se così non fosse?
Sarebbe la fine.” e come uno squarcio nel buio mostra la luce, vede tutto
chiaro! Prende quindi ad accarezzarle i
lunghi capelli rossi, ma mentre lo fa, le viene in mente la novella di Rosso
Malpelo disprezzato e considerato cattivo per il solo colore dei suoi capelli.
- Ma no, che
vado a pensare? - Dice tra sé.
Il silenzio
ora lo sente come un prezioso alleato. Le impedisce di fare un passo falso.
Qualunque parola potrebbe rompere la sintonia che sente crearsi tra loro. Non
deve avere fretta di sapere se vuole conquistarsi la sua fiducia.
Angela
intanto le ha poggiato la testa sulla spalla, e sta tremendo.
“Non sono
solo quei due, è un intero gruppo. - dice alla fine alzando la testa, e
aggiunge con voce incerta: - Le ragazze. Sono soprattutto loro. Certe, mi
seguono nei bagni, mi riprendono con il cellulare. Dicono che sono brutta,
troppo magra, e mi vesto male.”
“Non permettere loro di farti sentire inferiore, - replica Anita - se tu non lo vuoi. Non c’è niente di giusto nel ferire i tuoi sentimenti, né nel silenzio, il tuo silenzio non fa che giustificare le loro azioni..”
Angela non aggiunge
altro, non le va di parlarle della sua vita ad una che fino a dieci minuti
prima neanche conosceva. Ma sente un peso dentro che rischia di diventare un
mattone. Tira fuori la felpa, se l'appoggia sulle spalle. Cincischia con le
maniche che le penzolano sul petto, le arrotola, le srotola.
Infine
aggiunge: “Quei ragazzi abitano in uno stabile vicino a casa mia. Succede da
quando sono arrivata in paese dalla nonna. Credo sia per un ragazzo.”
“Cioè?”
“Pensano si sia lasciato morire per colpa
sua.”
“Per colpa
di chi? Di tua nonna? Addirittura! Ma che storia è questa?”
“Non
chiedermi altro, ti prego.” Replica Angela con voce sofferta – “E' una brutta
storia, non voglio parlarne.” E aggiunge: “Dai usciamo. Devo andare, mia nonna mi
aspetta e si preoccupa se ritardo.”
Riprendono a
camminare in silenzio, superano il palazzo del Municipio, e raggiungono il
ponte. Angela abita poco più avanti ma sente il bisogno di spiegare. Si
appoggia alla ringhiera in ferro battuto e riprende:
“Una volta non abitavo con lei.
Quando è successo il fatto non c'ero.” Fa un lungo sospiro.
“Si chiamava
Gianni. Era il fratello di uno dei tizi di oggi.”
“Mia nonna
mi ha raccontato che aveva seri problemi con la droga e lei aveva insistito con
i genitori perché chiedessero di farlo ricoverare nella comunità dove lavorava
come assistente sociale. Rassicurandoli che era la cosa giusta da fare. Così
attraverso il Sert era stato inserito in quella comunità di recupero.”
“E poi?...
Cosa gli è successo?” Incalza Anita.
“L'hanno
trovato morto in bagno. Si era tagliato le vene.”
“Oh… ma tua
nonna... e tu, che colpa ne avete?”
Angela alza
le spalle: “Non lo so.” Non prosegue, ma resta con la bocca socchiusa, pare
voler aggiungere altro.
Dopo qualche
minuto riprende:
“Ti ho detto
una bugia. Anch'io frequento l’Istituto, sono al primo anno. Dopo la morte dei
miei genitori in un incidente stradale, vivo con mia nonna. E vuoi sapere
tutto? Nessuno mi vuole come amica, c'è chi mi ignora, chi mi evita. In classe
un compagno ha provato anche a passare un temperino sul banco per intimorirmi.
Le male lingue parlano, sparlano e io non lo sopporto più. Ho deciso di
lasciare la scuola.”
“Oggi ero lì
solo per quel quaderno.”
“Mi dispiace, sono dei miserabili. - Replica Anita - Semplicemente dei perdenti che giocano a torturarti per sentirsi più forti di te, ma non lo sono, credimi. Senti, adesso ti accompagno fin sotto casa. Ti lascio il mio numero. Se ti senti sola, se hai bisogno di parlare, chiama!”
Torna a
casa, e dopo aver pranzato fa il numero di Elisa sul cellulare, una sua
compagna. Con una scusa, si fa dare il numero di Fabrizio, uno dei due ragazzi
che ha gridato quelle parole.
La storia
naturalmente assume i contorni di una verità... un'altra, la loro. Le viene riportato che per un contrattempo
amministrativo Gianni all'epoca era stato trattenuto in comunità due giorni in
più del dovuto e la mattina che poteva uscire venne trovato morto.
“Se non c’è più, è colpa di quella donna,
– le dice il compagno - doveva impedire che accadesse, doveva vegliare su di
lui."
Benché il
fatto sia accaduto da più di due anni, Fabrizio continua a pensarla allo stesso
modo ed Anita capisce l’inutilità di farlo ragionare, e del piacere quasi
perverso che provano lui e i suoi amici ad infastidire Angela.
Riaggancia e
sposta le sue riflessioni su altre strategie. “Quei ragazzi vanno fermati,
devo solo trovare un modo. Giocano con la sua fragilità, ma sono solo vuoti
dentro, fatti d’aria come palloni gonfiati.”
Il mattino
seguente, in Istituto, chiede di parlare con il Dirigente scolastico e racconta
del quaderno, delle parole dei compagni, delle vessazioni subite da Angela. Rivela
ciò che sa e viene quindi deciso di convocare i genitori dei ragazzi per
informarli sui fatti e della motivazione che porta l’Istituto a sospendere i
coinvolti.
Per timore
che la storia possa finire con una denuncia alle forze dell'ordine, secondo ciò
che dice la legge, le famiglie intervengono, i messaggi vengono eliminati, e
tutto torna alla normalità.
Ma ciò che è
stato seminato con tanto accanimento non potrà essere estirpato da un giorno
all'altro, soprattutto nella mente di Angela.
Saranno l’intervento di Anita, la sua
vicinanza e le sedute con una terapeuta ad aiutarla ad uscire dal baratro in
cui è finita, ma dovrà lavorare molto sulla sua autostima.
Stefania Pellegrini
Anno 2025 - Inedito©
OGNI DIRITTO RISERVATO ALL'AUTRICE©
Nessun commento:
Posta un commento