sabato 13 settembre 2025

Eillen e il mito della Cailleach Béara

 



By Nigel Cox, CC BY-SA 2.0.


Buona lettura  

            Il verde rigoglioso e acceso della primavera esaltava le distese collinari della penisola di Béara che ondeggiavano alla voce del vento, e l’oceano sottostante velato dalla foschia del mattino aveva un aspetto sonnolento. La terra aspra ma piena di suggestione si dipanava tra i viottoli costeggiati da distese fioriture.

            La bicicletta gialla filava veloce attraverso il sentiero sterrato, che passava attraverso i campi, dove pascolavano greggi di pecore dal manto bianco come neve.

Eileen pedalava, la gonna azzurra di cotone sollevata dal vento si muoveva ondeggiando leggera sulla vecchia bicicletta che sobbalzava ad ogni buca incontrata.

La giovane era in ritardo sull’orario stabilito. La proprietaria del negozio di fiori del villaggio di Allihies era stata chiara: Un altro ritardo e doveva scordarsi quel lavoro.

Eileen non poteva permettersi di perderlo, era tutto ciò che di più caro avesse. Al piccolo nido profumato avvolto nel verde e nei colori si sentiva a casa, anzi avrebbe detto: meglio di casa sua, sempre così silenziosa e fredda. In quel luogo coglieva piacere e calore. C’erano i profumi e i colori dei fiori, c’erano le clienti che le raccontavano immancabilmente qualche fatto delle loro giornate, e i pettegolezzi… be’ quelli non mancavano mai. Eileen era sempre gentile e paziente con tutte e, mentre confezionava e curava i suoi fiori, sorrideva di tanto in tanto o faceva qualche gesto con la testa, per assecondarle e compiacerle, anche se il più del tempo era assorta nei propri pensieri.  

            In quella botteguccia dagli infissi rossi, che spiccavano decisi sulla via tra gli altri stabili colorati di blu, giallo e rosa, c'era arrivata all'età di quattordici anni quando, morta la madre e rimasta sola, era andata a vivere con la nonna paterna, anche lei mancata un anno prima.

            Ora la giovane ne aveva ventitré di anni e si era fatta una splendida ragazza dai capelli rossi e grandi occhi nocciola. Le lentiggini, sulla pelle porcellana del volto, mettevano in risalto il suo sguardo: sveglio e sbarazzino. Il corpo snello, più alta della media delle ragazze del villaggio, la rendevano un appetitoso bocconcino da corteggiare, ma Eileen, di animo gentile e caritatevole, sempre impegnata ad aiutare chi aveva bisogno di cure o di compagnia, non aveva tempo per dare ascolto ai suoi coetanei.

            Quel giorno come ogni mattina, prima di iniziare il lavoro, si stava recando da una vecchietta, in una casetta piuttosto isolata sopra le alte scogliere frastagliate della costa, per portarle una bottiglia di latte fresco e qualche fetta di soda bread, il pane irlandese.

Sapeva poco di quella donna molto avanti negli anni giunta in quel villaggio quando ormai era già anziana eppure le si era affezionata da subito e la sentiva vicina come una seconda nonna. La sua dolcezza, i suoi preziosi consigli e quel modo particolare di raccontare storie la facevano sentire una persona migliore. 

Arrivò trafelata e mentre poggiava la bicicletta al vecchio muro scrostato della casa, come a voler recuperare tempo, prese a chiamare:

“Moody, eccomi, sto arrivando.” La casa era avvolta nel silenzio e nessuna voce arrivava dal suo interno. La porta d’ingresso era accostata. Strano, pensò la giovane, di solito è sempre chiusa.   La spinse per entrare e si vide passare tra le gambe il gatto che schizzò fuori lanciando un forte miagolio.

“Sean, ma che modi. Che fretta hai di uscire?” Gridò infastidita.

Si diresse in cucina, il fuoco nella stufa si era spento, l’aria era fredda. Moody non c’era. Poggiò allora il sacchetto sul tavolo e in sua direzione, la immaginava in camera, la casetta non aveva che due misere stanze, disse:

“Moody, scusa. Sono in ritardo, lo so, ma prima di uscire trovo sempre qualche altra cosa da fare. Come mai non hai riavviato la stufa? Qua si gela. Ti ho portato del latte, ieri mi sembrava che ne fosse rimasto poco nella bottiglia.”

In quel mentre vide sul tavolo in legno la ciotola del latte rovesciata.

Strano, pensò, che sia stato Sean? Ma non sale mai sopra.

“Moody, ma dove sei? Stai bene? Hai visto cosa ha fatto Sean sul tavolo?”

All’ennesimo silenzio si precipitò in camera. Non era da lei non rispondere. Moody era distesa in poltrona, indossava ancora la vestaglia e le gambe, le spalle, erano avvolte nella solita coperta vecchia e scolorita che si era fatta all’uncinetto.

Eileen le si avvicinò e la toccò leggermente su una spalla, ma niente. Sembrava dormire profondamente. Al secondo tentativo più energico, la testa della donna reclinò sulla spalla destra. Non poteva essere… uno brutto presentimento la portò a controllare il battito del polso, auscultò il collo e si sentì raggelare.

Oh no, Moody! La prese tra le braccia, con delicatezza, il suo corpo abbandonato a se stesso era così minuto, pareva più piccolo e fragile del solito.

Non dovevi andartene. Era una così bella giornata, dopo tanta pioggia, so che ne avresti gioito con me e adesso? Che farò senza di te?” Mormorò tra le labbra mentre sentiva salire le lacrime agli occhi.

Si accasciò a terra come uno straccio bagnato e prese a singhiozzare.

Rivide in un lampo il giorno che si erano incontrate la prima volta, risentì la sua voce sottile, pacata, i suoi consigli e si perse in quei ricordi piacevoli. Rimase assorta in quella posizione per un tempo imprecisato. Dopo cinque forse anche dieci minuti realizzò di dovere avvertire il medico della contea e sempre piangendo inforcò di nuovo la bicicletta e pedalò verso lo studio in paese.

            Alla sera sfinita dalla giornata pesante e dalla perdita, andò a letto presto ma non riusciva a trovare pace: di tanto in tanto si appisolava e si risvegliava scossa da un improvviso incubo. Verso l’alba il suo essere finalmente si acquietò e fu allora che fece un sogno.

Sognò Moody che le diceva:

“Mia cara, non devi soffrire, non voglio che tu pianga più per me. Io non sono morta.”

 Aveva le sembianze di una giovane molto bella, ma l’altezza, gli occhi, la bocca, erano i suoi. Di una bellezza delicata con lunghissimi capelli biondi ondulati che le raggiungevano la vita, indossava una tunica verde leggera che le sfiorava i piedi piccoli e sottili. Nudi.

“Il mio corpo riposerà, ma la mia anima dopo esser tornata alla pietra che mi ha generato, troverà un nuovo corpo per rinascere.”

“Tornerò! Tornerò, forse anche solo il prossimo inverno. Ma tu dovrai fare una cosa per me.”

Moody parlava e mentre parlava sprigionava luce che si irradiava tutt’attorno.

 Eillen la guardava affascinata. Davanti a quella creatura evanescente, anche la voce pareva arrivare da lontano come una melodia di arpa dispersa nell’aria, era come se avesse perso l’uso della parola. Perplessa e piena di dubbi, non trovava il coraggio di fare domande, se ne stava imbambolata davanti a lei incapace di dire una parola, come una stupida.

Poi accadde qualcosa. Forse vide un lampo, subito dopo buio e Moody scomparve. Aprì gli occhi con una percezione strana, era nella sua stanza, nel letto, l’alba era già sorta da un pezzo. Il dolore struggente del giorno prima era scomparso, al suo posto riconobbe una sensazione di vaga leggerezza, come di ubriacatura.

Sono solo gli effetti del sogno, si disse, e il sogno è semplicemente frutto della mia fantasia.

Poi ricordò qualcosa.

Era un mito. Il mito della Cailleach Béara o Vecchia di Dingle in cui si racconta che il paesaggio e l’aspra costa rocciosa della penisola del Béara fosse abitata da secoli da una vecchia che pare avesse origine dalla pietra bagnata dall'Atlantico e alla pietra stessa ritornasse per rigenerarsi passando attraverso molte vite che andavano dalla vecchiaia alla giovinezza in modo ciclico. 

Era possibile che la vecchia Moody fosse quella dea mitologica? 

Di lei si diceva anche che, durante i suoi diversi periodi successivi di giovinezza, avesse dato alla luce gli antenati di numerosi clan importanti della regione. Che sogno stava vivendo?

Si vestì in fretta, consumò in piedi una fetta di plum cake e uscì per andare al lavoro.

Quel giorno trascorse veloce, era sabato e al negozio di fiori, dedicandosi a soddisfare le richieste dei clienti, non ci fu molto tempo per pensare al sogno e a Moody.

Il mattino successivo si alzò dal letto più tardi del solito visto che era domenica e non andava al lavoro. Fece colazione, e si vestì con calma per recarsi in chiesa.

Uscì e s’incamminò a piedi, l’aria ventilata del primo mattino era ancora piuttosto fresca. Sulla via non incontrò nessuno. Fatto mezzo miglio le venne in mente qualcosa… un cofanetto…  il cofanetto che Moody, in sogno, le aveva chiesto di recuperare.

Tornò rapidamente indietro per prendere la bicicletta, poi cambiò idea. Non aveva fretta, sarebbe andata a piedi e in chiesa alle 11:00, c’era tempo per tutto. Anche se non era molto convinta doveva verificare di non essersi immaginata tutto.

La giornata era luminosa e trasmetteva buon umore. Il vento capriccioso del giorno precedente aveva spazzato via tutte le nubi dal cielo. La casetta le apparve più decrepita del solito. Le persiane in legno erano accostate e tenute insieme con uno spago perché non si chiudevano più, nei vasi qualche narciso aveva la testa gialla reclinata e quando riuscì ad aprire la serratura della porta arrugginita l’accolse un gelo e un silenzio profondi. Le mancavano le fusa e il miagolio di saluto di Sean, ma pensò che era al sicuro, in compagnia dei bambini di una conoscente che se ne era presa cura.

Non aveva più sognato Moody, ma quanto la faceva soffrire la sua assenza.  L'attraversò un brivido e provò a scacciare tristi pensieri. In fin dei conti, dopo che la donna era stata portata via, non era più entrata là dentro.

Non dovette rovistare molto per trovare il cofanetto. D’altra parte Moody era stata chiara: “Vai alla credenza, sposta i libri che vedrai davanti a te e lo troverai.” Non aveva neanche provato a nasconderlo meglio, pensò. 

In legno scuro di forma rotonda e dimensioni piuttosto piccole, il cofanetto, racchiudeva un foglietto ripiegato e un sottile anello d’oro a fascia con impresse pietruzze in smeraldo che dall’usura pareva avere moltissimi anni.

 Quindi è tutto vero, non me lo sono inventato, pensò Eillen rigirandosi tra le mani quei due oggetti, il sogno aveva un fondo di verità. Oh Moody, perché non mi hai mai parlato di questo? E ora che dovrei fare io?

Si sedette sulla prima sedia in paglia che vide vicino infilandosi al dito l’anellino prezioso, poi con mani tremanti aprì il bigliettino e lesse:

“Cara amica mia. Sì, sono la vecchia di Dingle o se preferisci la Cailleach Béara. Tu hai portato compagnia, affetto e sollievo ai miei giorni, e meriti di essere ricompensata, per questo ti assicuro una vita lunga e felice. Richiudi il cofanetto con ciò che hai trovato e portalo via con te. Mi raccomando non parlarne con nessuno e non aprirlo più. il suo segreto deve restare tale. Quando sarà giugno, recarti alla cresta che guarda Ballycrovane Harbour. Là sul promontorio che mira l’oceano troverai una grossa roccia con una faccia scolpita. Dovrai sotterrarlo lì sotto. Fai in modo di farlo bene, affinché nessun altro lo possa ritrovare.”

 

Trascorse aprile, maggio e finalmente arrivò giugno. Si celebrarono le prime feste con balli e musiche all’aperto mentre le fanciulle del piccolo villaggio sognavano nuovi incontri e nuovi amori.

Eillen scelse una calda domenica luminosa senza vento per raggiungere la cresta. Quando raggiunse il luogo indicato a Kilcatherine, Béara, Eillen restò paralizzata, il grosso masso rappresentava davvero i resti fossilizzati di un volto. Sentì che le tremavano le gambe, salire l’ansia. La pietra era lì davanti a lei grande, misteriosa. Cercò di immaginarsi lo sguardo perso di Moody mentre fissa l'oceano e attende il ritorno del marito Manannán, Dio del Mare, come viene raccontato nel mito. 

Intanto una folata di vento, lieve e improvvisa proveniente dall’oceano, si era levata attorno, grossi gabbiani bianchi e grigi si radunavano, si aggiravano sopra di lei gracchiando, alcuni si posavano sulla pietra. Non capiva se doveva temerli, non ne aveva mai visti così tanti insieme. Istintivamente allungò una mano per toccare quel masso e a quel contatto i gabbiani volarono via, disperdendosi sopra le acque dell’oceano.

Andò a prendere la pala attaccata alla bicicletta e prese a scavare lentamente, quasi con un senso di pudore verso quel luogo che le appariva sacro, poi si distese sull’erba soffice cresciuta attorno e rivolse lo sguardo al cielo.

Il vento si era di nuovo placato ed era bello ciò che stava provando in quel momento, sentiva una profonda pace salire dentro di sé. Abbassò lo sguardo verso l’oceano e lo vide: lontano, verso l’orizzonte. Un grande arcobaleno si era formato nel blu del cielo, e in mezzo il volto di Moody sorridente. Non desiderò altro che fissare quell’immagine nella mente per sempre perché qualcosa le diceva che sarebbe stata l’ultima. Chissà quale altro luogo avrebbe scelto la donna per rinascere, perché ora ne era certa, una volta restituito il cofanetto la sua anima avrebbe ripreso vita.

Sulla strada del ritorno incontro un giovane. Un giovane straniero che le chiese informazioni. Doveva recarsi a Allihies, ma si era perso. Proveniva da Cork ed era stato assunto al pub. I due si guardarono negli occhi e benché non si fossero mai visti ebbero la sensazione di conoscersi e di piacersi. Il giovane aveva una strana luce nello sguardo, un sorriso magnetico.

Un incontro casuale? Chissà, forse non proprio, forse la vecchia Moody da qualche parte stava sorridendo compiaciuta.


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sabato 26 luglio 2025

Una brutta storia

                  

BUONA LETTURA

            Può darsi che io non arrivi a un certo giorno, può darsi... sia finita. La luna illumina il pozzo, in fondo riflette il niente. Può darsi che mi risveglierò e scoprirò che è stato solo un sogno, un brutto sogno... Può darsi. Ma se così non fosse? Sarebbe la fine.

              Le parole, in una grafia minuta, quasi infantile, della prima pagina di un quadernetto a righe, si interrompono bruscamente. Sul punto finale una sbavatura di inchiostro. Anita si sofferma su ogni singola frase, perplessa. Sfoglia... oltre solo fogli bianchi e pagine strappate. Le piacerebbe sapere cosa contenevano, ma ormai non potrà più scoprirlo.

            Era in mezzo all'erba, nei pressi di due abeti.

            Lo gira tra le mani, non ci sono nomi. La copertina rigida, semplice, è di un celeste pallido, marezzato, un elastico nero, sottile, tiene insieme le pagine.

            Ripete: “Può darsi che io non arrivi a un certo giorno”, se lo ripete più volte, la frase non le suona nuova... Ma sì! È il primo verso di una poesia di Nazim Hikmet: “Può darsi che io non arrivi a un certo giorno, può darsi che penzolando a un capo del ponte lascerò cadere la mia ombra sull'asfalto...” Recita mentalmente: “... se sarò vivo... suonerò il violino e canterò una canzone...” 

            Deve entrare in classe, penserà dopo al significato di quelle frasi. Il permesso autorizzato le scade alle dieci. Lontana da sguardi curiosi, infila rapida il quaderno nella tasca dello zaino e corre in Istituto. A lezioni concluse ha dimenticato completamente il ritrovamento, ma mentre esce dalla porta a vetri vede una giovane, alta e magra, aggirarsi nel luogo dove tre ore prima ha rinvenuto il quaderno.

            Si sofferma sotto la tettoia ad osservare la scena. La giovane rovista tra l'erba, sembra agitata. “E adesso, che faccio? Magari sta cercando quello che ho preso io.”  Fa un lungo respiro e va verso di lei. Da vicino tutto è più semplice, e naturale, anche dire:

            “Ciao” – estrarre il quaderno dallo zaino e aggiungere con un sorriso: “Stai cercando questo?” -  Mentre due grandi occhi verdi acquosi, profondi come il mare si fissano su di lei con sguardo imbarazzato.

            “Dove l'hai trovato?... Lo stavo cercando.” La proprietaria di quegli occhi afferra rapida il quaderno, come volesse strapparglielo dalle mani, e lo infila nella sacca a tracolla.

            “Era qui nell'erba, l'ho visto per puro caso e ho pensato di prenderlo per evitare che andasse perduto.” Risponde sorpresa.

            Può darsi sia finita.   È finita...”  Un dubbio come un punto grigio che rompe l'armonia del foglio, in questo caso della mente, come una folgorazione, le si manifesta improvviso.

             “Io mi chiamo Anita e tu?”

            L'altra cincischia con la sacca di stoffa, se l'aggiusta, resta in silenzio. Qualche minuto poi risponde: “Io sono Angela.” Per proseguire subito dopo: “Bene. Ti ringrazio. Sei stata gentile. Ma ora devo andare.”

            “Aspetta!” Anita la trattiene per un braccio e rimane colpita da quella sua carnagione chiara e pallida su un viso ricoperto di lentiggini. Se l'avesse già visto se lo ricorderebbe, così le chiede: - “Anche tu frequenti l'Istituto?”

            “No.” Risponde l'altra decisa mentre cerca di allungare il passo per immettersi in via della stazione.

            “Vai verso il centro? Io abito dalle parti del Municipio, ti accompagno.” – replica Anita –  

            Angela non ha nessuna voglia di fare conversazione, ma non protesta. Gira a destra, risale verso il borgo e si lascia affiancare sul marciapiede, cercando di ignorare quella presenza che le sta procurando disagio ed una insolita sudorazione.

            Si sofferma per togliersi la felpa, che indossa sopra i jeans e la maglietta con maniche corte, e la butta senza cura nella sacca. Poi riprende a camminare in silenzio.

            La giornata è calda benché siano solo gli ultimi giorni di aprile. Intorno si respira una piacevole aria vivace, quasi estiva e il cielo riflette un blu privo di nuvole.

            La ragazza pare non gradire conversare benché Anita cerchi di metterla a suo agio parlando di sé, della sua passione per i gialli, di quello che vorrebbe fare dopo il quinto anno... 

            Camminano affiancate sul lato sinistro della strada.  Incrociano un anziano con un bastone che zoppica, e imboccano il senso unico di via Emile Chanoux. Poco più avanti, un motorino, con a bordo due ragazzi, spunta da dietro un’auto e le supera rombando. Sfreccia via veloce ma entrambe sentono chiaramente gridare nella loro direzione: “Anita stai alla larga da quella. Porta iella.” Angela si fa rossa come un pomodoro, accelera il passo e prende a correre, mentre lei scuote la testa pensando ai soliti stupidi, che han voglia di scherzare.

            Vorrebbe fermarla, parlarle, raccontarle, che anche a lei è capitato che qualcuno la chiamasse snob o con altri appellativi, perché non dava loro confidenza, e in classe le nascondessero gli oggetti, ma non è facile stare dietro a quelle sue lunghe gambe. Anita che è grassottella, e decisamente più piccola, ha il fiatone.

            Supera il negozio fotografico, il panificio, sente il cuore in gola.  Nei pressi dell’ufficio postale riesce a raggiungerla e la ferma afferrandola per un braccio, mentre una donna anziana che le ha appena superate si gira a guardarle.

            “Angela, aspetta! Guardami! Non avrai davvero creduto a quei due? Sono dei cretini. Non hanno la misura dei loro scherzi.”

            “Ma che fai piangi?” Cerca nella tasca dei pantaloni ed estrae un fazzoletto.

            “Dai prendi, asciugati, non meritano le tue lacrime.”

             “Tu parli, parli. Ma che vuoi sapere?” Risponde Angela risentita.

            “Cioè? Ti hanno già importunata?”

            Nessuna risposta.  Al ché propone:

            “Dai, più avanti c'è un bar. Entriamo e ci sediamo un attimo.”

            Il locale è abbastanza tranquillo, nonostante l’ora del pranzo, dentro c'è solo un vecchietto che consuma il suo bicchiere di bianco e parla con il barista. Cercano un tavolino appartato e ordinano una coca – cola.

            Anita vorrebbe tranquillizzarla, dirle che si può fidare, ma sceglie di restare in silenzio. Prova però ad abbracciarla ed Angela, come una marionetta, non reagisce. I suoi occhi, velati di lacrime, fissano un punto lontano.

            Un atteggiamento che le fa tornare in mente: “E se così non fosse? Sarebbe la fine.” e come uno squarcio nel buio mostra la luce, vede tutto chiaro!  Prende quindi ad accarezzarle i lunghi capelli rossi, ma mentre lo fa, le viene in mente la novella di Rosso Malpelo disprezzato e considerato cattivo per il solo colore dei suoi capelli.

            - Ma no, che vado a pensare? - Dice tra sé.

            Il silenzio ora lo sente come un prezioso alleato. Le impedisce di fare un passo falso. Qualunque parola potrebbe rompere la sintonia che sente crearsi tra loro. Non deve avere fretta di sapere se vuole conquistarsi la sua fiducia.

            Angela intanto le ha poggiato la testa sulla spalla, e sta tremendo.

            “Non sono solo quei due, è un intero gruppo. - dice alla fine alzando la testa, e aggiunge con voce incerta: - Le ragazze. Sono soprattutto loro. Certe, mi seguono nei bagni, mi riprendono con il cellulare. Dicono che sono brutta, troppo magra, e mi vesto male.” 

            “Non permettere loro di farti sentire inferiore, - replica Anita - se tu non lo vuoi. Non c’è niente di giusto nel ferire i tuoi sentimenti, né nel silenzio, il tuo silenzio non fa che giustificare le loro azioni..”

            Angela non aggiunge altro, non le va di parlarle della sua vita ad una che fino a dieci minuti prima neanche conosceva. Ma sente un peso dentro che rischia di diventare un mattone. Tira fuori la felpa, se l'appoggia sulle spalle. Cincischia con le maniche che le penzolano sul petto, le arrotola, le srotola.

            Infine aggiunge: “Quei ragazzi abitano in uno stabile vicino a casa mia. Succede da quando sono arrivata in paese dalla nonna. Credo sia per un ragazzo.”

            “Cioè?”

             “Pensano si sia lasciato morire per colpa sua.”

            “Per colpa di chi? Di tua nonna? Addirittura! Ma che storia è questa?”

            “Non chiedermi altro, ti prego.” Replica Angela con voce sofferta – “E' una brutta storia, non voglio parlarne.” E aggiunge: “Dai usciamo. Devo andare, mia nonna mi aspetta e si preoccupa se ritardo.”

            Riprendono a camminare in silenzio, superano il palazzo del Municipio, e raggiungono il ponte. Angela abita poco più avanti ma sente il bisogno di spiegare. Si appoggia alla ringhiera in ferro battuto e riprende:

            “Una volta non abitavo con lei. Quando è successo il fatto non c'ero.” Fa un lungo sospiro.

            “Si chiamava Gianni. Era il fratello di uno dei tizi di oggi.”

            “Mia nonna mi ha raccontato che aveva seri problemi con la droga e lei aveva insistito con i genitori perché chiedessero di farlo ricoverare nella comunità dove lavorava come assistente sociale. Rassicurandoli che era la cosa giusta da fare. Così attraverso il Sert era stato inserito in quella comunità di recupero.”

            “E poi?... Cosa gli è successo?” Incalza Anita.

            “L'hanno trovato morto in bagno. Si era tagliato le vene.”

            “Oh… ma tua nonna... e tu, che colpa ne avete?”

            Angela alza le spalle: “Non lo so.” Non prosegue, ma resta con la bocca socchiusa, pare voler aggiungere altro.

            Dopo qualche minuto riprende:

            “Ti ho detto una bugia. Anch'io frequento l’Istituto, sono al primo anno. Dopo la morte dei miei genitori in un incidente stradale, vivo con mia nonna. E vuoi sapere tutto? Nessuno mi vuole come amica, c'è chi mi ignora, chi mi evita. In classe un compagno ha provato anche a passare un temperino sul banco per intimorirmi. Le male lingue parlano, sparlano e io non lo sopporto più. Ho deciso di lasciare la scuola.”

            “Oggi ero lì solo per quel quaderno.”

             “Mi dispiace, sono dei miserabili. - Replica Anita - Semplicemente dei perdenti che giocano a torturarti per sentirsi più forti di te, ma non lo sono, credimi. Senti, adesso ti accompagno fin sotto casa. Ti lascio il mio numero. Se ti senti sola, se hai bisogno di parlare, chiama!”

            Torna a casa, e dopo aver pranzato fa il numero di Elisa sul cellulare, una sua compagna. Con una scusa, si fa dare il numero di Fabrizio, uno dei due ragazzi che ha gridato quelle parole.

            La storia naturalmente assume i contorni di una verità... un'altra, la loro.  Le viene riportato che per un contrattempo amministrativo Gianni all'epoca era stato trattenuto in comunità due giorni in più del dovuto e la mattina che poteva uscire venne trovato morto.

“Se non c’è più, è colpa di quella donna, – le dice il compagno - doveva impedire che accadesse, doveva vegliare su di lui." 

            Benché il fatto sia accaduto da più di due anni, Fabrizio continua a pensarla allo stesso modo ed Anita capisce l’inutilità di farlo ragionare, e del piacere quasi perverso che provano lui e i suoi amici ad infastidire Angela.

            Riaggancia e sposta le sue riflessioni su altre strategie. “Quei ragazzi vanno fermati, devo solo trovare un modo. Giocano con la sua fragilità, ma sono solo vuoti dentro, fatti d’aria come palloni gonfiati.”

            Il mattino seguente, in Istituto, chiede di parlare con il Dirigente scolastico e racconta del quaderno, delle parole dei compagni, delle vessazioni subite da Angela. Rivela ciò che sa e viene quindi deciso di convocare i genitori dei ragazzi per informarli sui fatti e della motivazione che porta l’Istituto a sospendere i coinvolti.

            Per timore che la storia possa finire con una denuncia alle forze dell'ordine, secondo ciò che dice la legge, le famiglie intervengono, i messaggi vengono eliminati, e tutto torna alla normalità.

            Ma ciò che è stato seminato con tanto accanimento non potrà essere estirpato da un giorno all'altro, soprattutto nella mente di Angela.

Saranno l’intervento di Anita, la sua vicinanza e le sedute con una terapeuta ad aiutarla ad uscire dal baratro in cui è finita, ma dovrà lavorare molto sulla sua autostima.

Stefania Pellegrini

Anno 2025 - Inedito©

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