lunedì 20 ottobre 2025

Nuovo racconto: Incontri

 


Buona lettura

Anna e Serena vivevano a Genova, si muovevano disinvolte sulle scogliere o tra le acque del mare, ma molto meno lungo i sentieri di montagna.

L’idea dell’escursione era nata alla loro amica Giovanna che le stava ospitando a Chatillon per una breve vacanza, e voleva far conoscere loro le bellezze del luogo. Il Castello di Ussel lo vedevano tutti i giorni sul promontorio scosceso che domina dall’alto Chatillon, e curiose di visitarlo avevano manifestato il desiderio di ammirarlo da vicino, tanto più che l’amica aveva parlato di una gradevole passeggiata.

L’intenzione era di raggiungerlo approfittando del percorso pedonale per godere della vista sulla piana sottostante. Giovanna ne aveva parlato come un’escursione con poco dislivello. Dopo aver affrontato la prima salita ripida, il resto del percorso sarebbe stato pianeggiante o in leggera discesa. Solitamente il Castello era chiuso alle visite ma, le aveva spiegato l'amica, girando attorno ai due lati accessibili, se non altro, potevano apprezzare la sua struttura compatta, con le due torrette cilindriche sul lato d’ingresso a sud, e vedere una delle tre torri quadrangolari sul lato nord. Da lì si sarebbero potute soffermare sull’ampio spiazzo erboso adiacente per osservare il panorama del fondo valle e sostare per il picnic.

Quel giorno di luglio l’aria calda condensava qualche nuvola che si raggruppava qua e là in nembostrati, per cui Giovanna, interpretandole come passeggeri in lento dissolvimento, organizzò la gita. 

Prepararono gli zainetti con borracce d’acqua, qualche panino per il pranzo e al mattino verso le 8:30 raggiunsero la stazione di Chatillon con la macchina. Da lì avrebbero imboccato a piedi la strada che porta a Pontey dove, appena a sinistra dopo l’attraversamento del ponte sulla Dora Baltea, avrebbero preso la mulattiera che porta fino alla frazione di Ussel.

Euforiche per l’escursione, la prima da quando erano giunte in Valle d’Aosta, Anna e Serena imboccarono il selciato in pietra della mulattiera, leggermente in salita, parlando e scherzando allegramente con l’amica.

Nei pressi di un piccolo ponticello dove il percorso si restringe e la vegetazione, costituita da alberi, dirada lievemente lasciando spazio a scorci interessanti sul borgo di Chatillon e la sottostante Dora Baltea, il loro fiato cominciò a fare qualche capriccio e rallentarono il passo, soffermandosi ad ammirare il paesaggio attorno. Erano circondate da un’aria tranquilla, il sole coperto a tratti dalle nuvole rendeva il caldo piacevole. Il silenzio della natura, apparentemente appisolata, era interrotto solo da qualche uccellino appollaiato sulle fronde di alberi vicini che, di tanto in tanto, lanciava richiami canori.

Ad un certo punto, con un paio di svolte decise guadagnarono quota e, proseguendo in fila indiana tra una vegetazione rigogliosa, si ritrovarono su un sentiero sterrato. Fu allora che le due ragazze richiamarono l’attenzione dell’amica per fermarsi a bere dalla borraccia, e soprattutto per riprendere fiato. Sentivano il cuore in gola e avevano le magliette sudate.

 Intanto in quel lasso di tempo si era alzato un leggero vento che muoveva la vegetazione, le foglie degli alberi e in cielo, salendo da dietro le montagne, si stavano formando agglomerati di nubi sempre più compresse, dei cumulonembi dalla forma imponente e scura alla base.

 

Stavano camminando da una ventina di minuti quando cominciarono a sentire le prime gocce, e videro l’aria minacciosa del cielo grigio, scuro come graffite. Ma Giovanna rassicurò fiduciosa le amiche. Quattro, cinque minuti al massimo ed avrebbero raggiunto Ussel. Il Castello era vicino, c’era solo da percorrere un viottolo in pietra leggermente in salita. Ed aggiunse: “Sono solo quattro passi.”  

Però, sappiamo bene cosa può accadere nei climi montani. Dopo le prime gocce di avvertimento, la pioggia prese a scendere a scrosci. Le ragazze vi si trovarono in mezzo, senza la possibilità di ripararsi ed il passaggio dall’acqua alla grandine fu immediato, repentino. Sassolini freddi e grandi come piselli cominciarono a cadere e a rimbalzare sul terreno, sulla vegetazione, provocando inizialmente un forte crepitio, poi un rumore di colpi secchi e ritmati.

Nel giro di pochi secondi, vestite con corti pantaloncini e magliette sportive sbracciate, si ritrovarono zuppe d’acqua, investite da una scarica gelida, violenta, che non risparmiò nessuna parte del loro corpo. Giovanna non riuscì neanche a prendere il K-Way nello zaino tanto l’evento fu rapido.

La grandine colpiva, rimbalzava sulle loro gambe e provocava dolore e rossore sulla pelle. Anna e Serena non si erano mai trovate in una situazione simile e presero a lamentarsi per gli arti freddi e doloranti.

Accelerarono il passo, cercando di ripararsi la testa come potevano. Giovanna davanti, le altre dietro. Il terreno era diventato fanghiglia. Avevano i polpacci e le ginocchia graffiate, ed erano sfinite. Intanto Giovanna cercava di rincuorare le amiche e le esortava a tener duro. Non mancava più molto, Ussel era poco sopra.

La temperatura era scesa di qualche grado, si era fatto freddo attorno ed un forte vento ostacolava la loro salita. Cominciarono ad aver paura di non farcela, cinquecento metri sembravano un'eternità. Erano spaventate ed attraversate da forti brividi di freddo. Allora, con il corpo piegato in avanti, lo sguardo rivolto in basso, i capelli corti zuppi, si misero a correre. Scivolavano, si rialzavano e riprendevano a correre, finché… finché abbandonato il sentiero trafelate, giunsero in vista dei caseggiati, e poterono riprendere fiato. 

Il Castello dall’aspetto tetro, era alla loro sinistra, l’acqua correva sull’asfalto della strada deserta come un ruscelletto in piena, trascinando foglie, aghi di abete, terriccio.

Non grandinava più, ed era calato un po' il vento, ma una pioggia fitta ed insistente continuava a scendere dal cielo completamente nero.

Pensarono di andare alla ricerca di un bar, un luogo dove poter trovare rifugio. Bisognava aspettare, diceva Giovanna. Il temporale si sarebbe presto spostato.

 

Fu allora che udirono una voce femminile. Era di un’anziana affacciatasi sull’uscio di una casetta in pietra, con ciotole di gerani rossi alle finestre.

“Ragazze, non smetterà in fretta, venite in casa. Siete tutte bagnate, ed immagino abbiate freddo. Entrate – La sua voce vibrava come corde di violino – vi asciugate e se avete un cambio potete togliervi quella roba bagnata e sporca. Venite! Vi preparo qualcosa di caldo.” 

“Lei è gentile, grazie – aggiunse con tono riconoscente Giovanna – siamo un po’ stravolte, approfittiamo volentieri. Volevamo vedere il Castello e proseguire per il Ponte delle Capre, ma adesso non so più.”

La donna si muoveva rapida, probabilmente oltre gli ottanta. Minuta, capelli bianchi corti, un po’ arruffati, occhi piccoli vivaci, ricordava un folletto. Le fece accomodare in cucina, una ampia stanza con la stufa a legna e due larghe finestre che davano sul Castello.

Mise dell’acqua sul fuoco per una tisana e prese a dire:

“A… A proposito del Castello. C’è una storia, avvenuta tanti anni fa, la conoscete?” E, senza aspettare risposta, aggiunse con occhi che si accendevano di nuova luce:

“Ve la racconto io”.

“In un tempo lontano, io non lo ricordo, ero piccolina, nella frazione viveva una giovane. Avrà avuto circa venti anni, più o meno la vostra età, quando la madre si suicidò gettandosi dalla rupe del Castello.

 La nonna mi ha raccontato che aveva capelli mori, snella, simpatica. Carina, sì... insomma, credo un tipo come voi. La perdita inaspettata lasciò la ragazza affranta dal dolore, e con il senso di colpa per non essere riuscita a fermare la madre. 

Trascorsero un paio di mesi. Poi la giovane cominciò ad udire voci, che pare sentisse solo lei.

Dolci, non cattive, ma insistenti.

Le sussurravano parole, la chiamavano.

Senza sapere come, ogni notte si ritrovava sullo spiazzo erboso del Castello.

La vecchietta si alzò dalla sedia. Versò la tisana nelle tazze e riprese a dire:

 Un giorno trovò il coraggio di raccontarlo ad un’amica. E disse che quando era là vedeva figure angeliche che ballavano e cantavano.

Le descrisse come bellissime, con lunghe vesti bianche e capelli biondi sciolti fino alla vita. E raccontò che in mezzo a loro vedeva il volto della madre… avvolto da un velo trasparente che sorrideva e poi la salutava, e cercava di rassicurarla e le diceva che stava bene. 

Lilli era una lontana cugina di mia madre e, lei che la conosceva bene, mi ha detto che non era una visionaria, ma gli altri purtroppo, tutti nella frazione, quando cominciò a circolare la sua storia, dissero che si era sognando tutto, e poi che aveva perso il lume della ragione.

Così quando un giorno di ottobre Lilli parlò ai paesani di un fatto che avrebbe presto colpito Ussel e portato morte e dolore, tutti ci scherzarono sopra e risero. 

Provò in vari modi a metterli in guardia, come le aveva suggerito la madre, ma nessuno la prese sul serio. Per tutti diventò: “la pazza”, pure i bambini la canzonavano.

 Così un giorno sparì.”

La vecchietta si fece silenziosa, pareva assorta. Sollevò la tazza della tisana tra le mani e prese a sorseggiare il liquido tiepido. In quel mentre, un gattino bianco e nero entrò nella stanza miagolando.

“Volete sapere come andò? - Riprese la donna sorridendo ed accarezzando il gattino che faceva le fusa.

“Andò che dopo una settimana circa, qualcuno si ammalò. Cominciò con strane febbri che andavano, venivano. Vomito… diarrea, che il dottore curò come influenza. Ma dovete sapere che le persone non guarivano e l’epidemia si allargava.

Alla fine la causa era nell’acqua. Era inquinata, forse da un animale morto. Ma ci misero un po’ a scoprirlo. Intanto i più fragili, diversi anziani, morivano.”

“E a quel punto?” – Chiese Serena –

“Le male lingue si misero in moto. Dovevano dare la colpa a qualcuno… si sa come vanno le cose a volte nei paesi e qualcuno sparse la voce che era la vendetta di Lilli.

Era stata lei ad avvelenare l’acqua.” – precisò l’anziana e, rivolgendo lo sguardo fuori, aggiunse:

“Ragazze sta tornando il sole, non piove più. Potete riprendere la vostra escursione. Il percorso per il Ponte delle Capre dovrebbe essere piacevole, un tratto è addirittura in discesa.”

“Si è mai saputo che ne è stato di Lilli?” – Chiese allora Anna.

“No. Qualcuno, all’epoca, pensò fosse caduta in qualche burrone, qualcun altro disse di averla vista aggirarsi nei boschi. Ma in verità nessuno la vide più.”

 

La tre ragazze uscirono da quella casa in silenzio. Il cielo era tornato limpido, di un blu profondo che pareva un dipinto di Van Gogh.

Anna e Serena avevano lo sguardo perplesso, Giovanna invece appariva tranquilla, ed appena si furono allontanate esordì dicendo:

“Non avrete creduto a quella storia? Capisco che vi sia apparsa affascinante e costellata di magia, ma proprio per questo non è affidabile.”

“Dici?” Aggiunse Anna sollevando le ciglia.

“Ma non può essersi inventata tutto.” Ribatté Serena.

” Da queste parti ogni anziano ha una storia, una leggenda come questa da raccontare. Magari l’epidemia c’è stata ed è esistita anche quella Lilli… ma sul resto ho qualche dubbio.”

 Concluse Giovanna alzando le spalle mentre conduceva le amiche verso il Castello. 

 Ma Serena replicò:

“Comunque non la si può sminuire. La vecchietta le ha solo dato la sua interpretazione. Leggenda o non leggenda, è pur sempre una storia. Un viaggio nel mondo di Lilli e della sua mamma che, in qualche modo, lei ha fatto rivivere. E pensate, se non c'era la grandine non avremmo mai incontrato la vecchietta. Per me è stato bello.

Anche per me.- Aggiunse Anna.

“Sapete, – proseguì seria in volto - in un modo o in un altro, mi piacerebbe non essere dimenticata.”

“Ma va là, – disse Giovanna dandole una pacca sulle spalle – a cosa vai a pensare. Noi non moriremo.” Ed esplose in una sonora risata.

Stefania Pellegrini ©

(racconto pubblicato sulla raccolta: "Chatillon si racconta" ed. 2)

    

sabato 13 settembre 2025

Eillen e il mito della Cailleach Béara

 



By Nigel Cox, CC BY-SA 2.0.


Buona lettura  

            Il verde rigoglioso e acceso della primavera esaltava le distese collinari della penisola di Béara che ondeggiavano alla voce del vento, e l’oceano sottostante velato dalla foschia del mattino aveva un aspetto sonnolento. La terra aspra ma piena di suggestione si dipanava tra i viottoli costeggiati da distese fioriture.

            La bicicletta gialla filava veloce attraverso il sentiero sterrato, che passava attraverso i campi, dove pascolavano greggi di pecore dal manto bianco come neve.

Eileen pedalava, la gonna azzurra di cotone sollevata dal vento si muoveva ondeggiando leggera sulla vecchia bicicletta che sobbalzava ad ogni buca incontrata.

La giovane era in ritardo sull’orario stabilito. La proprietaria del negozio di fiori del villaggio di Allihies era stata chiara: Un altro ritardo e doveva scordarsi quel lavoro.

Eileen non poteva permettersi di perderlo, era tutto ciò che di più caro avesse. Al piccolo nido profumato avvolto nel verde e nei colori si sentiva a casa, anzi avrebbe detto: meglio di casa sua, sempre così silenziosa e fredda. In quel luogo coglieva piacere e calore. C’erano i profumi e i colori dei fiori, c’erano le clienti che le raccontavano immancabilmente qualche fatto delle loro giornate, e i pettegolezzi… be’ quelli non mancavano mai. Eileen era sempre gentile e paziente con tutte e, mentre confezionava e curava i suoi fiori, sorrideva di tanto in tanto o faceva qualche gesto con la testa, per assecondarle e compiacerle, anche se il più del tempo era assorta nei propri pensieri.  

            In quella botteguccia dagli infissi rossi, che spiccavano decisi sulla via tra gli altri stabili colorati di blu, giallo e rosa, c'era arrivata all'età di quattordici anni quando, morta la madre e rimasta sola, era andata a vivere con la nonna paterna, anche lei mancata un anno prima.

            Ora la giovane ne aveva ventitré di anni e si era fatta una splendida ragazza dai capelli rossi e grandi occhi nocciola. Le lentiggini, sulla pelle porcellana del volto, mettevano in risalto il suo sguardo: sveglio e sbarazzino. Il corpo snello, più alta della media delle ragazze del villaggio, la rendevano un appetitoso bocconcino da corteggiare, ma Eileen, di animo gentile e caritatevole, sempre impegnata ad aiutare chi aveva bisogno di cure o di compagnia, non aveva tempo per dare ascolto ai suoi coetanei.

            Quel giorno come ogni mattina, prima di iniziare il lavoro, si stava recando da una vecchietta, in una casetta piuttosto isolata sopra le alte scogliere frastagliate della costa, per portarle una bottiglia di latte fresco e qualche fetta di soda bread, il pane irlandese.

Sapeva poco di quella donna molto avanti negli anni giunta in quel villaggio quando ormai era già anziana eppure le si era affezionata da subito e la sentiva vicina come una seconda nonna. La sua dolcezza, i suoi preziosi consigli e quel modo particolare di raccontare storie la facevano sentire una persona migliore. 

Arrivò trafelata e mentre poggiava la bicicletta al vecchio muro scrostato della casa, come a voler recuperare tempo, prese a chiamare:

“Moody, eccomi, sto arrivando.” La casa era avvolta nel silenzio e nessuna voce arrivava dal suo interno. La porta d’ingresso era accostata. Strano, pensò la giovane, di solito è sempre chiusa.   La spinse per entrare e si vide passare tra le gambe il gatto che schizzò fuori lanciando un forte miagolio.

“Sean, ma che modi. Che fretta hai di uscire?” Gridò infastidita.

Si diresse in cucina, il fuoco nella stufa si era spento, l’aria era fredda. Moody non c’era. Poggiò allora il sacchetto sul tavolo e in sua direzione, la immaginava in camera, la casetta non aveva che due misere stanze, disse:

“Moody, scusa. Sono in ritardo, lo so, ma prima di uscire trovo sempre qualche altra cosa da fare. Come mai non hai riavviato la stufa? Qua si gela. Ti ho portato del latte, ieri mi sembrava che ne fosse rimasto poco nella bottiglia.”

In quel mentre vide sul tavolo in legno la ciotola del latte rovesciata.

Strano, pensò, che sia stato Sean? Ma non sale mai sopra.

“Moody, ma dove sei? Stai bene? Hai visto cosa ha fatto Sean sul tavolo?”

All’ennesimo silenzio si precipitò in camera. Non era da lei non rispondere. Moody era distesa in poltrona, indossava ancora la vestaglia e le gambe, le spalle, erano avvolte nella solita coperta vecchia e scolorita che si era fatta all’uncinetto.

Eileen le si avvicinò e la toccò leggermente su una spalla, ma niente. Sembrava dormire profondamente. Al secondo tentativo più energico, la testa della donna reclinò sulla spalla destra. Non poteva essere… uno brutto presentimento la portò a controllare il battito del polso, auscultò il collo e si sentì raggelare.

Oh no, Moody! La prese tra le braccia, con delicatezza, il suo corpo abbandonato a se stesso era così minuto, pareva più piccolo e fragile del solito.

Non dovevi andartene. Era una così bella giornata, dopo tanta pioggia, so che ne avresti gioito con me e adesso? Che farò senza di te?” Mormorò tra le labbra mentre sentiva salire le lacrime agli occhi.

Si accasciò a terra come uno straccio bagnato e prese a singhiozzare.

Rivide in un lampo il giorno che si erano incontrate la prima volta, risentì la sua voce sottile, pacata, i suoi consigli e si perse in quei ricordi piacevoli. Rimase assorta in quella posizione per un tempo imprecisato. Dopo cinque forse anche dieci minuti realizzò di dovere avvertire il medico della contea e sempre piangendo inforcò di nuovo la bicicletta e pedalò verso lo studio in paese.

            Alla sera sfinita dalla giornata pesante e dalla perdita, andò a letto presto ma non riusciva a trovare pace: di tanto in tanto si appisolava e si risvegliava scossa da un improvviso incubo. Verso l’alba il suo essere finalmente si acquietò e fu allora che fece un sogno.

Sognò Moody che le diceva:

“Mia cara, non devi soffrire, non voglio che tu pianga più per me. Io non sono morta.”

 Aveva le sembianze di una giovane molto bella, ma l’altezza, gli occhi, la bocca, erano i suoi. Di una bellezza delicata con lunghissimi capelli biondi ondulati che le raggiungevano la vita, indossava una tunica verde leggera che le sfiorava i piedi piccoli e sottili. Nudi.

“Il mio corpo riposerà, ma la mia anima dopo esser tornata alla pietra che mi ha generato, troverà un nuovo corpo per rinascere.”

“Tornerò! Tornerò, forse anche solo il prossimo inverno. Ma tu dovrai fare una cosa per me.”

Moody parlava e mentre parlava sprigionava luce che si irradiava tutt’attorno.

 Eillen la guardava affascinata. Davanti a quella creatura evanescente, anche la voce pareva arrivare da lontano come una melodia di arpa dispersa nell’aria, era come se avesse perso l’uso della parola. Perplessa e piena di dubbi, non trovava il coraggio di fare domande, se ne stava imbambolata davanti a lei incapace di dire una parola, come una stupida.

Poi accadde qualcosa. Forse vide un lampo, subito dopo buio e Moody scomparve. Aprì gli occhi con una percezione strana, era nella sua stanza, nel letto, l’alba era già sorta da un pezzo. Il dolore struggente del giorno prima era scomparso, al suo posto riconobbe una sensazione di vaga leggerezza, come di ubriacatura.

Sono solo gli effetti del sogno, si disse, e il sogno è semplicemente frutto della mia fantasia.

Poi ricordò qualcosa.

Era un mito. Il mito della Cailleach Béara o Vecchia di Dingle in cui si racconta che il paesaggio e l’aspra costa rocciosa della penisola del Béara fosse abitata da secoli da una vecchia che pare avesse origine dalla pietra bagnata dall'Atlantico e alla pietra stessa ritornasse per rigenerarsi passando attraverso molte vite che andavano dalla vecchiaia alla giovinezza in modo ciclico. 

Era possibile che la vecchia Moody fosse quella dea mitologica? 

Di lei si diceva anche che, durante i suoi diversi periodi successivi di giovinezza, avesse dato alla luce gli antenati di numerosi clan importanti della regione. Che sogno stava vivendo?

Si vestì in fretta, consumò in piedi una fetta di plum cake e uscì per andare al lavoro.

Quel giorno trascorse veloce, era sabato e al negozio di fiori, dedicandosi a soddisfare le richieste dei clienti, non ci fu molto tempo per pensare al sogno e a Moody.

Il mattino successivo si alzò dal letto più tardi del solito visto che era domenica e non andava al lavoro. Fece colazione, e si vestì con calma per recarsi in chiesa.

Uscì e s’incamminò a piedi, l’aria ventilata del primo mattino era ancora piuttosto fresca. Sulla via non incontrò nessuno. Fatto mezzo miglio le venne in mente qualcosa… un cofanetto…  il cofanetto che Moody, in sogno, le aveva chiesto di recuperare.

Tornò rapidamente indietro per prendere la bicicletta, poi cambiò idea. Non aveva fretta, sarebbe andata a piedi e in chiesa alle 11:00, c’era tempo per tutto. Anche se non era molto convinta doveva verificare di non essersi immaginata tutto.

La giornata era luminosa e trasmetteva buon umore. Il vento capriccioso del giorno precedente aveva spazzato via tutte le nubi dal cielo. La casetta le apparve più decrepita del solito. Le persiane in legno erano accostate e tenute insieme con uno spago perché non si chiudevano più, nei vasi qualche narciso aveva la testa gialla reclinata e quando riuscì ad aprire la serratura della porta arrugginita l’accolse un gelo e un silenzio profondi. Le mancavano le fusa e il miagolio di saluto di Sean, ma pensò che era al sicuro, in compagnia dei bambini di una conoscente che se ne era presa cura.

Non aveva più sognato Moody, ma quanto la faceva soffrire la sua assenza.  L'attraversò un brivido e provò a scacciare tristi pensieri. In fin dei conti, dopo che la donna era stata portata via, non era più entrata là dentro.

Non dovette rovistare molto per trovare il cofanetto. D’altra parte Moody era stata chiara: “Vai alla credenza, sposta i libri che vedrai davanti a te e lo troverai.” Non aveva neanche provato a nasconderlo meglio, pensò. 

In legno scuro di forma rotonda e dimensioni piuttosto piccole, il cofanetto, racchiudeva un foglietto ripiegato e un sottile anello d’oro a fascia con impresse pietruzze in smeraldo che dall’usura pareva avere moltissimi anni.

 Quindi è tutto vero, non me lo sono inventato, pensò Eillen rigirandosi tra le mani quei due oggetti, il sogno aveva un fondo di verità. Oh Moody, perché non mi hai mai parlato di questo? E ora che dovrei fare io?

Si sedette sulla prima sedia in paglia che vide vicino infilandosi al dito l’anellino prezioso, poi con mani tremanti aprì il bigliettino e lesse:

“Cara amica mia. Sì, sono la vecchia di Dingle o se preferisci la Cailleach Béara. Tu hai portato compagnia, affetto e sollievo ai miei giorni, e meriti di essere ricompensata, per questo ti assicuro una vita lunga e felice. Richiudi il cofanetto con ciò che hai trovato e portalo via con te. Mi raccomando non parlarne con nessuno e non aprirlo più. il suo segreto deve restare tale. Quando sarà giugno, recarti alla cresta che guarda Ballycrovane Harbour. Là sul promontorio che mira l’oceano troverai una grossa roccia con una faccia scolpita. Dovrai sotterrarlo lì sotto. Fai in modo di farlo bene, affinché nessun altro lo possa ritrovare.”

 

Trascorse aprile, maggio e finalmente arrivò giugno. Si celebrarono le prime feste con balli e musiche all’aperto mentre le fanciulle del piccolo villaggio sognavano nuovi incontri e nuovi amori.

Eillen scelse una calda domenica luminosa senza vento per raggiungere la cresta. Quando raggiunse il luogo indicato a Kilcatherine, Béara, Eillen restò paralizzata, il grosso masso rappresentava davvero i resti fossilizzati di un volto. Sentì che le tremavano le gambe, salire l’ansia. La pietra era lì davanti a lei grande, misteriosa. Cercò di immaginarsi lo sguardo perso di Moody mentre fissa l'oceano e attende il ritorno del marito Manannán, Dio del Mare, come viene raccontato nel mito. 

Intanto una folata di vento, lieve e improvvisa proveniente dall’oceano, si era levata attorno, grossi gabbiani bianchi e grigi si radunavano, si aggiravano sopra di lei gracchiando, alcuni si posavano sulla pietra. Non capiva se doveva temerli, non ne aveva mai visti così tanti insieme. Istintivamente allungò una mano per toccare quel masso e a quel contatto i gabbiani volarono via, disperdendosi sopra le acque dell’oceano.

Andò a prendere la pala attaccata alla bicicletta e prese a scavare lentamente, quasi con un senso di pudore verso quel luogo che le appariva sacro, poi si distese sull’erba soffice cresciuta attorno e rivolse lo sguardo al cielo.

Il vento si era di nuovo placato ed era bello ciò che stava provando in quel momento, sentiva una profonda pace salire dentro di sé. Abbassò lo sguardo verso l’oceano e lo vide: lontano, verso l’orizzonte. Un grande arcobaleno si era formato nel blu del cielo, e in mezzo il volto di Moody sorridente. Non desiderò altro che fissare quell’immagine nella mente per sempre perché qualcosa le diceva che sarebbe stata l’ultima. Chissà quale altro luogo avrebbe scelto la donna per rinascere, perché ora ne era certa, una volta restituito il cofanetto la sua anima avrebbe ripreso vita.

Sulla strada del ritorno incontro un giovane. Un giovane straniero che le chiese informazioni. Doveva recarsi a Allihies, ma si era perso. Proveniva da Cork ed era stato assunto al pub. I due si guardarono negli occhi e benché non si fossero mai visti ebbero la sensazione di conoscersi e di piacersi. Il giovane aveva una strana luce nello sguardo, un sorriso magnetico.

Un incontro casuale? Chissà, forse non proprio, forse la vecchia Moody da qualche parte stava sorridendo compiaciuta.


Stefania Pellegrini ©


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